Le prime ricerche

All’ inizio si sono occupati della diversità tra lingua femminile e lingua maschile soprattutto testi di antropologia culturale e di linguistica collegata all’ antropologia. Diamo qui un elenco dei principali.

1929 . Sapir, E. “Male and Female Forms of Speech in Yana”, in Teeuwen (1929, pp. 79-85) = Sapir 1949, pp. 206-212.

1946. Flannery, R. Men’s and Women’s Speech in Gros Ventre , in “International Journal of America Linguistics”, 12, pp. 133- 135.

1961. Blood, D. Women’s Speech Characteristics in Cham , “Asian Culture”, 3, pp. 139-143.

1964. Hymes, D. H. ( a cura di), Language in Culture and Society. A Reader in Linguistics sand Anthropology , New York, Harper & Row, p. 233.

1964. Haas, M. R. “Men’s and Women’s Speech in Kaasati”, in D. Hymes, ed. , Language in Culture and Society , cit.

1967 Balmori, C. H. Estudies de àrea lingüistica indìgena , Universidad de Buenos Aires, Centro de Estudios Lingüisticos .

58Tuttavia l’ esposizione più completa del problema si ritrova nelle pagine che qui appresso indico :

1922. Jespersen , O. Language, Its Nature, Development, and Origin , London, Allen & Unwin, pp. 236-254.

1938. Tagliavini, C. “Modificazioni del linguaggio nella parlata delle donne”, in AA. VV. , Scritti in onore di Alfredo Trombetti , Milano, Hoepli, pp. 87- 142.

1976. Cardona, G. R. , Introduzione all’ etnolinguistica , Il Mulino, Bologna, pp. 77-81.

Da queste ricerche apprendiamo che già autori classici avevano rilevato l’ esistenza di lingue femminili presso alcuni popoli.

Essi ne ricercarono la spiegazione nella provenienza delle donne da altri gruppi ; ad esempio Erodoto (IV, 114) spiega che gli Sciti non riuscirono mai ad imparare la lingua delle loro mogli Amazzoni, mentre queste appresero lo Scita. Platone nel “Cratilo” e Cicerone nel “De Oratore” osservarono anche la maggiore presenza nel linguaggio femminile di vocaboli e suoni arcaici.

Cicerone trova naturale questo fatto, dal momento che le donne facevano vita ritirata, meno esposta a stimoli esterni ed a contatti con altre forme di linguaggio.

Anche i moderni antropologi sono giunti alle stesse conclusioni, per cui si può parlare, per molte società ( specialmente quelle di tipo più patriarcale), di un fenomeno di “conservazione” presente nella lingua delle donne, più lontane dalla vita pubblica, dai contatti esterni e dall’ istruzione. Ad esempio in molti villaggi russi le donne conservavano ( almeno fino a qualche tempo fa) l’ antica pronuncia –Go, Ga della desinenza del genitivo, che nel linguaggio maschile si era mutata in –Vo, Va ; anche in popolazioni degli indiani d’ America ( come i Creek ) le donne conservano tratti arcaici della lingua.

Per questo motivo, gli autori delle inchieste dialettali compiute in Italia, Svizzera ed altri Paesi Europei per ritrovare gli antichi vocaboli e le cadenze dialettali, preferivano interrogare soggetti donne.

Presso alcuni popoli soltanto gli uomini sono bilingui : abbiamo già parlato degli Arabi, ma possiamo aggiungervi i gruppi baschi della Francia ( dove il servizio militare, gli studi e le relazioni di ogni giorno hanno provocato nella parte maschile della popolazione una quasi estinzione dell’ antica lingua in favore del francese ) e gli Arumeni dei Balcani, fra i quali gli uomini parlano l’ arumeno nelle relazioni familiari e il neoellenico in quelle formali e nelle interazioni relative alla vita pubblica e alla cultura, mentre le donne si limitano a parlare la prima lingua.

Del resto, in tutti i gruppi emigrati in un’ altra nazione di lingua diversa gli uomini giungono ad apprendere la seconda lingua in numero molto maggiore delle donne.

A volte questa conservazione linguistica è coscientemente voluta, in quanto le donne ( soprattutto delle classi superiori e ad un livello medio-alto di istruzione )sono considerate depositarie del “modo corretto di parlare”. A questo proposito è famoso il caso delle “précieuses” francesi, e O. Jespersen ricorda come su una pronuncia eccessivamente corretta e raffinata insistano le “girls’ schools”.

Nonostante l’ apparente contraddizione, le stesse cause ( emarginazione rispetto alla vita pubblica, ai rapporti esterni e all’ istruzione ) che hanno provocato la “conservazione” linguistica, hanno a volte prodotto un fenomeno di “innovazione” rispetto alla fonologia, alla morfologia e al lessico di una lingua. Ad esempio in rumeno si è riscontrato come le donne usino palatalizzare le labiali, mentre gli uomini evitano accuratamente tali passaggi ( come bi>ghi).

Altri studi accurati compiuti sulla lingua giapponese da E. R. Edwards ( in Etude phonétique de la langue Japonaise , Leipzig, 1903 ) hanno rilevato che le innovazioni linguistiche sono introdotte in giapponese soprattutto dalle donne, per il fatto che esse subiscono molto poco l’ influenza delle forme scritte, e per questo si allontanano con maggiore facilità dalle espressioni già definite “corrette”, sia nella pronuncia che nell’ uso dei vocaboli e delle espressioni linguistiche. A Tokio le donne presentavano una forte tendenza a sbarazzarsi del suono /w/, ad esempio pronunziavano /atashi/ il vocabolo che era pronunciato dagli uomini come /watashi/. Nel francese del XVI secolo si è manifestata nelle donne l’ innovazione R >Z ( da cui sono derivati vocaboli simili come chaire e chaise ), la stessa innovazione verificatasi anche nel norvegese.

Rimaniamo sempre nel campo fonetico considerando la lingua Eskimo della Terra di Baffin, in cui le donne trasformavano la finale K-T in nasale – velare. L’ osservazione è stata fatta dall’ antropologo Franz Boas, il quale ha ritrovato lo stesso fenomeno in altre lingue dell’ America del Nord. Anche una lingua paleo- asiatica, il Ciukcio, si trasforma sulle labbra delle donne ; infatti molti suoni variano talmente che ad un ascoltatore i linguaggi parlati dai due sessi possono apparire varietà del tutto diverse. E, per terminare, Jespersen cita il caso delle popolazioni Botocudos nel Sud America, in cui sono quasi sempre le donne ad inventare nuove parole ed a variare il lessico con enorme facilità ; innovazioni che poi passano al resto della popolazione.

Vediamo ancora altre comunità linguistiche in cui si riscontra la differenza tra maschi e femmine. I casi più clamorosi sono stati riscontrati in lingue del continente americano; ad esempio nella lingua Dakota gli uomini usano nell’ imperativo interiezioni diverse dalle donne ( yo e po contro ye e pe ).

Nella lingua Arawak esistono parole usate esclusivamente o quasi da uomini e che hanno un loro sinonimo nel discorso delle donne, ed esistono anche parole usate rivolgendosi ad uomini e che sono sostituite da altre allorché ci si rivolge a donne ; perciò vi sono quattro tipi differenti di espressioni : parole usate da un uomo che si rivolge a un altro uomo ; parole usate da un uomo che si rivolge a una donna ; altre usate da donne rivolgendosi ad uomini ; ed altre ancora rivolte da una donna ad un’ altra donna.

Ma queste differenze riguardano un numero molto limitato di prefissi e di parole, come anche nelle lingue Guaycurù e nel Carajà del Brasile. In quest’ ultima lingua le differenze fonetiche ( il K intervocalico mantenuto dalle donne e caduto nella lingua dei maschi, in modo da produrre i vocaboli /wasikota/ e /wasiota/ e il prefisso Kari- che gli uomini trasformano in Ari- ) sembrano risalire unicamente al fenomeno già trattato della conservazione linguistica femminile.

Al contrario, nella lingua Yana della California, studiata da Edward Sapir, sembra agire per il linguaggio delle donne l’ innovazione fonetica, che ha condotto la parte femminile della popolazione a trasformare le sorde intervocaliche in sonore. Inoltre nel Yana Sapir ha riscontrato un piccolo numero di radici verbali riservate esclusivamente all’ uno o all’ altro dei sessi, come ni, ni : ( “un maschio va”) e a, a : (“una femmina va”) ; ma più che altro esistono un gran numero di parole con forme differenti ( forma completa o maschile e forma ridotta o femminile ). In realtà questa terminologia di Sapir non è del tutto esatta, perché la forma “maschile” è usata solo da uomini che parlano tra di loro.

Negli altri casi, cioè quando donne parlano con altre donne o con uomini, e anche quando uomini parlano con donne, si usa la forma ridotta o “femminile”. Tuttavia la forma completa è vista come propria degli uomini, in quanto le donne la usano allorché riferiscono le parole pronunciate dagli uomini tra di loro.

Lo studioso non chiarisce quale delle due forme sia originaria e quale introdotta in seguito, grazie ad un processo di ampliamento oppure di abbreviazione ; si pensa più facilmente ad un’ innovazione femminile. Anche nel linguaggio Chiquito della Bolivia le donne usano forme più brevi ed anche meno complicate grammaticalmente.

Le differenze di uso, rilevate dal linguista V. Henry, sono molto estese perché riguardano l’ uso soggettivo diverso che uomini e donne fanno per i pronomi di terza persona, per i prefissi, suffissi personali e possessivi di terza persona e le desinenze verbali della terza persona singolare e plurale. Anche qui le donne usano le forme maschili riportando le parole di uomini, e possono anche usarle parlando di cose relative ad uomini ; la stessa cosa fanno gli uomini riguardo alle forme femminili.

Le differenze del linguaggio non sono molto grandi, ma si limitano generalmente all’ uso o meno di prefissi e suffissi. Un esempio di Henry, riportato anche da Jespersen mostra come gli uomini usino tre forme diverse, e cioè : /Yebotii ti n-ipoostii/ = /He went to his house/ ; /Yebotii ti n-ipoos/ = /He went to her house/ ; /Yebo ti n-ipoostii/ = /She went to his house/ ; mentre le donne per questi tre casi usano un’ unica forma, cioè l’ espressione : /Yebo ti n-ipoos/.

Questo uso “soggettivo” delle forme non è molto comprensibile alla nostra cultura, in quanto la lingua che usiamo e quelle ad essa vicine non lo prevedono ; per spiegarlo un missionario, autore di una importante grammatica chiquita, ha usato una frase latina, modificandola in questo modo : “ Mortua est frater mea quae Servatorem nostram summa amore colebat ”. Anche qui possiamo parlare di innovazione femminile, almeno riguardo a tali espressioni pronominali e aggettivali e ad altre parole che le donne usano senza suffisso. In Chiquito, come del resto nello Yana, esistono anche differenze lessicali vere e proprie, che riguardano soprattutto le denominazioni di parentela ; ma mentre in Yana soltanto 4 nomi di parentela avevano una doppia forma, qui il fenomeno è molto più esteso (“mio padre” viene detto iyai e isûpu , “mia madre” ipaki e ipapa, “mio fratello” tsauruku e ičibausi , rispettivamente dai maschi e dalle femmine ).

Senza dubbio la questione più controversa è stata quella relativa al bilinguismo fra uomini e donne dei Carabi insulari.

A questo proposito vi sono documenti assai antichi, come la testimonianza di Du Tertre nella Historia general de las pequeñas Antillas (1654), e le osservazioni di qualche anno dopo da parte di C. De Rochefort. Quest’ ultimo spiega il fatto con la guerra avvenuta tra i Galibi della terraferma e gli Arawak che abitavano le isole. I Galibi distrussero la popolazione Arawak, ad eccezione delle donne, con le quali si unirono per ripopolare l’ isola, e da allora le donne hanno mantenuto parte dell’ antico linguaggio Arawak, trasmettendolo di madre in figlia.

Non tutti sono d’ accordo con tale spiegazione, e la considerano una pura leggenda ; tuttavia sta il fatto che la diversità di linguaggio esiste, e che molte delle espressioni femminili sono molto simili all’ Arawak che conosciamo.

Per quanto riguarda il lessico, fu redatto nel 1665 da Padre Raymond Breton un vocabolario caraibico, che comprendeva 400 parole circa usate esclusivamente da uno dei due sessi. O, meglio, una parola ( ad esempio embatali per indicare “viso” ) era usata dalle donne tra di loro, ma nella comunicazione con uomini esse utilizzavano per lo stesso significato il vocabolo ichibou , usato correntemente dai maschi della popolazione.

La lista delle parole distinte per uomini e donne è effettivamente abbastanza lunga, ed inoltre si tratta di radici linguistiche totalmente differenti e non di piccole modificazioni ; ma queste forme separate costituiscono solo un decimo della lingua, mentre tutte le altre parole sono comuni a uomini e donne. Perciò è difficile parlare di due lingue totalmente separate, anche perché la grammatica è generalmente uguale per entrambe le varietà, e non sono state riscontrate differenze fonetiche.

Nella morfologia del caraibico insulare risulta la diversità dei prefissi possessivi per uomini e donne riguardo a tre persone : la prima persona singolare ( i- nella lingua degli uomini e n- per la lingua delle donne ), la prima persona plurale ( k- e w- rispettivamente ) e la seconda persona singolare ( distinta in a- e b- ).

Questi prefissi corrispondono perfettamente e quelli usati dai Galibi e dagli Arawak, come anche corrisponde all’ Arawak il prefisso negativo del verbo usato dalle donne, m-ma- ; in questo caso gli uomini usano un infisso, che è –pa- .

Il caso delle donne Caribe non è isolato, perché molto spesso gruppi integrati in popolazioni con diverso idioma hanno mantenuto la lingua originaria, in tutto o in parte, come lingua segreta e “gergo” del gruppo. Certamente, se nei Caribe le donne non si sono lasciate assimilare, ciò è dovuto a fattori sociali, come una separazione abbastanza netta di compiti, di ruolo e di attività tra i maschi e le femmine. Ad esempio è nelle abitudini di questo popolo il pasto separato degli uomini e delle donne, ed inoltre queste ultime devono attendere che i maschi abbiano terminato, servendoli a tavola, per poi cibarsi. Si può dunque parlare in questo caso di una lingua “di classe”, perché le donne sono tenute in condizione doppia di inferiorità ; come sesso e come assimilate di una tribù diversa.

Un altro esempio di “lingua di classe” lo ritroviamo nell’ antico teatro indiano ; infatti gli uomini parlano generalmente in sanscrito e le donne in practico, e la distinzione non è tanto di sesso quanto di classe, di rango sociale applicato al sesso.

Infatti il practico è la lingua delle classi inferiori mentre il sanscrito è caratteristico degli dei, dei re, dei principi, dei bramini, dei ministri e delle classi alte in generale, in cui le donne, salvo rare eccezioni, non vengono incluse.

La dimostrazione di un livello culturale diverso fra uomini e donne ci viene offerta anche da alcuni drammi di Shakespeare, nei quali tutte le donne, anche le principali protagoniste del lavoro drammatico, si esprimono ad un basso livello linguistico.

Alcuni linguaggi femminili sono stati considerati propriamente “gerghi” o “lingue segrete”, come il Bahâsa Balik ( lingua rovesciata ) delle donne Brunee del Borneo e la lingua magica delle sacerdotesse Baree di Celebes, ma in questo caso si tratta di precise categorie di donne, cioè una piccolissima parte della popolazione femminile.

G. R. Cardona, nelle pagine citate in precedenza, osserva che lo studio della lingua femminile è posto in maniera sbagliata, perché la si considera sempre l’ eccezione rispetto alla lingua normale, quella degli uomini. Al contrario si deve parlare di due lingue alla pari, come è almeno alla pari il rapporto numerico tra i due sessi, e si deve parlare di rapporto dialettico esistente tra le due lingue. Invece di considerare sempre la “lingua femminile” come contrapposta alla varietà “standard” , si potrebbe e si dovrebbe molte volte introdurre il concetto di “lingua maschile”.

Come esempio Cardona cita, tra i Dagon, la lingua segreta della società degli uomini, sconosciuta alle donne e ai ragazzi non iniziati.

Tale lingua distingue insomma tra uomini pienamente integrati nella comunità ( iniziati e parlanti del sìgi ) egli altri (donne e bambini , non iniziati e non parlanti della lingua). Inoltre in molte lingue la varietà femminile è quella originaria, di base, e dunque ha più senso parlare di “variet{ maschile” rispetto allo standard che viceversa.

Per riassumere, le distinzioni riscontrate nel linguaggio dei due sessi si possono riassumere in :

a) Fenomeni di “conservazione” o di “innovazione “ linguistica ; b)Distinti prefissi o suffissi grammaticali relativi al sesso, nonché la distinzione sessuale “soggettiva” presente in alcune

lingue ; c)Differenze lessicali relative ai termini di parentela o alle

denominazioni di parti del corpo, in quanto il rapporto di parentela e anche la parte del corpo possono venir considerati differenti per un sesso e l’ altro ;

d)Differenze linguistiche determinate dall’ originaria appartenenza dei due sessi a gruppi linguistici diversi.

A questi punti dobbiamo aggiungere l’ esistenza, per le donne di numerose popolazioni, del cosiddetto tabu verbale o tabu sessuale. Ad esempio, nei già citati Caribe, alle donne non era permesso di pronunziare il nome del marito, altrimenti ( secondo una paura superstiziosa dei maschi del gruppo ) ciò gli avrebbe procurato un notevole danno, e molte parole erano tenute accuratamente celate alle donne, soprattutto in periodi di guerra, per evitare una supposta contaminazione femminile.

Il tabu sessuale è diffuso soprattutto in Africa. Presso gli Zulu la donna non può pronunziare il nome del marito, dei fratelli e del suocero, sotto pena di gravi rappresaglie ed anche della morte.

Non si tratta dunque di una varietà di lingua comune alle donne ( perché ognuna di esse ha il compito di evitare particolari parole, diverse da quelle interdette alle altre donne), ma di artifici linguistici personali, per cui la donna evita il termine umpiki (“albero”) sostituendovi ad esempio umbyaligwa ( “quello che viene piantato”) oppure qualche sinonimo arcaico e meno usato.

Possiamo distinguere le differenze di lingua riferendoci ai tre livelli tradizionali della lingua, cioè fonologia, morfologia e lessico.

Dal punto di vista fonologico abbiamo già visto delle differenze fra uomini e donne in varie lingue ; nel russo era diffuso tra le donne l’ uso della dittongazione di /o/ in /uo/ ; Jespersen ricorda il passaggio /r/ > /s/ nelle donne francesi e norvegesi e nota una lieve differenza fra femmine e maschi nella pronunzia di alcune vocali, in parole come /soft/, /children/, /breakfast/. Ma questa pronunzia particolare si limita a donne affettate e falsamente eleganti ( come accadeva alle précieuses francesi ), ed in moltissime è assente. In italiano per caratterizzare questo modo di parlare possiamo usare la labializzazione delle consonanti anteriori ; sono stati segnalati anche usi differenti dell’ accento e dell’ intonazione delle parole.

Anche morfologicamente abbiamo già visto alcuni esempi. Nella lingua italiana così come in altre esiste la distinzione tra genere femminile e maschile, per cui una donna dice / io sono andata / e un uomo / io sono andato / , ed alcune lingue presentano una differenziazione nei pronomi delle prime persone singolari e plurali.

Si è anche notato un maggior uso femminile dei diminutivi, delle forme orientate affettivamente, delle esclamazioni.

Dal punto di vista lessicale ritroviamo le maggiori differenze. Abbiamo già parlato di caratteristici gerghi femminili, ma anche senza questi casi limite il linguaggio dei maschi e delle femmine può presentare differenze lessicali a causa della separazione del lavoro tra i sessi e a differenti ambiti di esperienze.

Molto evidenti sono i tabu e le interdizioni stabilite alle donne, che portano queste ultime ad evitare particolari parole relative ad esempio alla defecazione e alla minzione, ad alcune parti del corpo, al coito e al sesso in generale.

A questo proposito Cardona osserva che la questione è più generale ; non si può limitare alla scelta di parole bensì di interi argomenti. Vi sono argomenti sentiti e considerati caratteristici di un sesso o dell’ altro, per cui un intero tema sar{ trattato alla maniera femminile o alla maniera maschile. Tale delicatezza, pudore, discrezione, ritenute doti peculiari delle donne, non si limitano strettamente alle parole interdette, ma si manifestano sempre nella scelta dei vocaboli, evitando quelli eccessivamente rudi e diretti in favore di espressioni più smussate ed eufemistiche. Inoltre si manifesta la propensione verso parole che indichino bellezza o gentilezza ( “It’s very kind of you” al posto di it’s very good of you”) e la tendenza ad eccentuare le esclamazioni e il tono emotivo del linguaggio.

Tali osservazioni, fatte da Jespersen nel 1922, possono essere condivise ancora oggi ; tuttavia egli protende a considerare doti naturali piuttosto che sociali alcune di queste differenze.

Ad esempio, riferendosi ad alcuni esperimenti compiuti sul linguaggio degli uomini e delle donne, conclude che ci sono tratti indipendenti dalla educazione ricevuta ; il vocabolario tipico della donna sarebbe meno esteso di quello di un uomo, e si manterrebbe per così dire nel campo centrale del linguaggio, evitando quelle espressioni molto bizzarre, o molto nuove. Jespersen osserva anche che molto spesso le donne non terminano un periodo, lasciandolo a metà, cosa molto meno comune negli uomini ; e che i lunghi periodi sono più complessi negli uomini, fatti di parti subordinate l’ una all’ altra, mentre la coordinazione di periodi è caratteristica delle femmine. Come caratteristiche generali del linguaggio pone poi la maggiore velocit{ nell’ uso della lingua e nella comprensione linguistica da parte delle donne ( che però mostra sovente povertà intellettuale ), la loro propensione a parlare molto, e lungamente, nonché il livello medio della loro capacità linguistica, mentre negli uomini si può trovare il genio linguistico ( l’ artista letterario, il grande oratore ) come l’ idiota fermo ai livelli più bassi della lingua.

E conclusioni di Jespersen, oltre a risultare lontane da noi per l’ epoca in cui furono stilate ( più di 55 anni fa ), si basano molto su pregiudizi e su impressioni personali. Ma questi pregiudizi sono molto diffusi a livello sociale, come ha osservato qualche anno fa Cheris Kramer, titolare di un corso di “comunicazione orale” nella università dell’ Illinois.

Essa, dopo aver analizzato il contenuto delle vignette satiriche pubblicate in tre mesi dal settimanale “The New Yorker”, sottopose le didascalie di 49 di esse a 50 studenti universitari, divisi in egual numero tra maschi e femmine. Gli studenti dovevano in un certo senso ricostruire la vignetta loro celata, indicando se le parole erano pronunciate da un uomo o da una donna, e perché.

Le risposte risultarono esatte nel 66 per cento dei casi, proprio basandosi sui luoghi comuni che attribuiscono ai due sessi modi differenti di parlare e scelta di temi diversi nella conversazione.

Cheris Kramer ha cercato di provare un’ altra affermazione di Jespersen, secondo la quale le donne usano più aggettivi degli uomini. Chiese perciò a 17 uomini e a 17 donne di scrivere dei brevi commenti riguardo a due fotografie, di cui una rappresentava un edificio e l’ altra un gruppo di persone ( in omaggio alla teoria sostenente il maggior interesse delle donne per i soggetti umani, degli uomini per le forme inanimate ). Risultò comunque insignificante la differenza in stile descrittivo e per il numero di aggettivi. Anche una seconda prova, in cui a 11 studentesse fu richiesto di analizzare dieci commenti scelti a caso, e di indicare per ognuno il sesso dello scrivente, non provò nulla di preciso; le ragazze identificarono correttamente il sesso dell’ autore in 59 casi e in 51 si sbagliarono.

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