La parola che più ricorre nella storia di Artemisia Gentileschi è passione: quel sentimento dirompente che accompagna ogni persona nel perseguimento dei propri sogni, tanto più ammirevole ed esemplare quanto più ostacolato da difficoltà e sofferenze.
Una donna pittrice. Nulla di strano se fosse stata un’artista dei nostri tempi, ma Artemisia nacque a Roma nel 1593, in un periodo in cui la pittura era ancora considerata una professione “da uomini”. Poche donne, come Sofonisba Anguissola e Lavinia Fontana, erano riuscite ad emergere dal contesto familiare nel quale, normalmente, l’interesse per l’arte si coltivava ad un livello per lo più dilettantistico; alle donne, infatti, veniva negato l’accesso alla sfera del lavoro e la possibilità di crearsi un proprio ruolo sociale.
La fortuna di Artemisia fu quella di nascere in una famiglia di artisti affermati, primo fra tutti il padre Orazio Gentileschi, suo maestro e fervido esponente del caravaggismo romano. Fu lui ad introdurre la figlia nel vivo ambiente culturale che caratterizzava Roma a quei tempi: tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, Caravaggio lavorava nella Basilica di Santa Maria del Popolo e nella Chiesa di San Luigi dei Francesi, Guido Reni e Domenichino gestivano un cantiere a S.Gregorio Magno, i Carracci ultimavano gli affreschi della Galleria Farnese.
A soli 17 anni Artemisia dipinse la sua prima grande opera, Susanna e i vecchioni (1610),dimostrando già uno spiccato talento nella personale rielaborazione di modelli classici, unita ad un’indagine naturalistica nella resa del corpo nudo della fanciulla e del moto avvitante dei due uomini da cui ella si ritrae. Le doti artistiche della giovane pittrice venivano così esaltate dal padre Orazio in una lettera inviata alla granduchessa di Toscana Cristina di Lorena, nel 1612: «questa femina, come è piaciuto a Dio, havendola drizzata nelle professione della pittura in tre anni si è talmente appraticata che posso adir de dire che hoggi non ci sia pare a lei, havendo per sin adesso fatte opere che forse i prencipali maestri di questa professione non arrivano al suo sapere.» (fonte: “Artemisia Gentileschi. La pittura della passione”, a cura di Tiziana Agnati e Francesca Torres, Edizioni Selene, Milano, 2008)
Tra i tanti artisti che collaboravano con la famiglia Gentileschi, Orazio scelse Agostino Tassi, pittore di vedute e paesaggi, affinché insegnasse alla figlia ad usare la prospettiva nei suoi dipinti.
Proprio alla figura del Tassi è legato l’episodio più doloroso della vita di Artemisia: nel maggio del 1611 la giovane subì uno stupro da parte del maestro. L’aggressore venne denunciato solo un anno dopo da Orazio, oltre che per la violenza compiuta, per non aver potuto riparare all’atto con un matrimonio, essendo il Tassi già sposato. Il processo si svolse pubblicamente a Roma, e fu in questa occasione che Artemisia dimostrò grande coraggio nel rispondere all’umiliazione subìta, accettando la peggiore delle torture per un pittore, lo schiacciamento dei pollici, pur di provare la veridicità della sua testimonianza.
La conclusione del processo, con una debole condanna nei confronti del Tassi, non scoraggiò Artemisia dal proseguire la sua attività artistica e intellettuale; dapprima la giovane preferì allontanarsi da Roma, per raggiungere Firenze. Forse per smorzare la fama generata dal triste episodio romano, iniziò a firmare i suoi dipinti con il cognome Lomi (ripreso dal nonno paterno: Orazio, per distinguersi dal fratello Aurelio, anch’egli pittore, aveva acquisito il cognome della madre), e fiorirono per lei numerose committenze e occasioni di collaborazione con grandi artisti fiorentini. A Firenze Artemisia fu la prima donna ad essere ammessa all’Accademia del Disegno, godendo dell’approvazione e del plauso dei colleghi pittori.
A questo periodo risale l’Allegoria dell’inclinazione (1615-16), giovane donna scarmigliata e nuda, dipinta nel palazzo di Michelangelo Buonarroti il giovane, che voleva così omaggiare la propensione naturale verso le arti del famoso prozio.
Altre figure femminili fiere e volitive sono protagoniste dei dipinti fiorentini, come Minerva, la Maddalena, Santa Caterina e soprattutto Giuditta. La vicenda dell’eroina biblica, infatti, ricorre in più dipinti di Artemisia e di suo padre.
Giuditta che decapita Oloferne – 162La versione più famosa è Giuditta che decapita Oloferne(1612-13) conservata nella Galleria Nazionale di Capodimonte a Napoli; la scena appare compressa all’interno della tela, fattore che ne aumenta la drammaticità. La violenza dell’atto viene mitigata dalla distensione che traspare dal volto di Giuditta; di grande effetto ottico è la limitata scelta di colori contrastanti: rosso scarlatto, blu elettrico e il bianco del lino, sporcato di sangue. Il prototipo a cui Artemisia avrebbe fatto riferimento è l’omonima tela di Caravaggio, da cui avrebbe ripreso l’impianto luministico e l’efferatezza della scena. Senz’altro la drammatica esperienza dello stupro avrà influito sull’impatto emotivo del dipinto.
Artemisia, nonostante il matrimonio con il fiorentino Pierantonio Stiattesi, rivendicò sempre la sua indipendenza di donna e di artista. Da Firenze tornò a Roma nel 1620, decisa ad accudire da sola le sue figlie. A questo secondo periodo romano risale una nuova versione del tema di Giuditta in cui la scena viene ripresa da una distanza maggiore, i toni di colore risultano abbassati e la violenza espressiva fortemente accentuata nell’accanimento della fanciulla che infligge il colpo di spada, lasciando trasparire l’orrore del volto al vedere zampillare il sangue di Oloferne.
Un’altra importante fase della carriera di Artemisia si svolse a Napoli, dove la pittrice giunse intorno al 1630, a seguito di una breve permanenza a Venezia, dove letterati ed artisti avevano potuto ammirarne le grandi doti. Nella città partenopea Artemisia ricevette committenze dai Vicerè e si dedicò all’arte sacra dipingendo, tra gli altri, episodi della vita di San Gennaro, per la cattedrale di Pozzuoli. Durante il periodo napoletano, non mancarono committenze insistenti anche da altre parti d’Italia e dall’estero; il soggiorno più importante si svolse a Londra, dove l’artista rimase dal 1638 al 1642, alla corte di Carlo I, presso il quale Orazio Gentileschi già lavorava da qualche tempo (qui morì nel 1639). Nell’ultimo periodo della sua vita, ancora a Napoli, Artemisia lavorò soprattutto per il collezionista Antonio Ruffo di Sicilia, fino alla morte, sopraggiunta nel 1653.
La figura di Artemisia Gentileschi, dopo la fama raggiunta in vita, rimase nella penombra fino al secondo dopoguerra; la conoscenza che si aveva di lei era legata per lo più alle vicende biografiche, in particolare al processo per stupro, più che alle reali doti artistiche della pittrice. Una delle letture più gettonate è stata quella in chiave femminista che, negli anni Settanta, ha eletto Artemisia quale simbolo della volontà delle donne di combattere contro il potere maschile. Ma questo punto di vista ha finito per essere inevitabilmente parziale e riduttivo rispetto al profilo umano, intellettuale ed artistico di questa grande donna.