Tamara de Lempicka

Nata probabilmente il 16 maggio 1898 e probabilmente a Varsavia, (circondò sempre di mistero le sue origini), perse il padre in tenera età. La nonna fu una figura centrale nella sua vita: accompagnandola da giovanissima in un viaggio in Italia, si innamorò della pittura e ne apprese le basi, e successivamente alla sua morte si trasferì in Russia, a Pietrogrado (oggi San Pietroburgo), dove conobbe Tadeusz Lempicki, un avvocato che sposò nel 1916 con un abito da sposa disegnato da lei, dotato di un velo lungo l’intera navata della chiesa.

La rivoluzione russa comportò l’arresto del marito, che venne liberato grazie agli sforzi di Tamara. La situazione politica, l’inverno rigidissimo e la povertà dilagante spinsero la coppia a trasferirsi a Parigi, dove nacque la loro figlia Kizette. La residenza francese si alternò a viaggi in Italia e negli Stati Uniti.

Tamara fu colpita dalle tele di Picasso e di André Lothe, e da quest’ultimo prese lezioni di pittura. La situazione economica della famiglia (priva di risorse), spinse la sorella Adrienne, architetto, a suggerirle di iniziare a dipingere, trasformando la sua grande passione in un lavoro.

In Italia venne scoperta dal principe Emanuele Castelbarco Visconti Simonetta, poeta, editore, gallerista, e figura culturale di rilievo dell’epoca, organizzatore a Milano nel 1925 di una personale (la prima mostra in assoluto della de Lempicka) che ebbe successo e la rese famosa come ritrattista: al nostro paese restò legata negli anni, trascorrendo le vacanze a Capri e commissionando una casa sul lago di Como, che non venne mai costruita.

Conobbe D’Annunzio e soggiornò al Vittoriale, ma il suo desiderio di ritrarlo restò insoddisfatto.

Ricca e famosa, nel 1928 venne lasciata dal marito, che si invaghì di un’altra donna. Tamara tentò in ogni modo di impedire il divorzio, senza successo, nonostante da dieci anni vivesse una relazione omosessuale parallela.

“Ragazza che dorme”

Da questo momento, iniziò a soffrire di episodi depressivi alternati a grande euforia, che la prostrarono e la spinsero a trovare aiuto nella cocaina, da cui svilupperà dipendenza.

L’anno successivo al divorzio conobbe il barone Raoul Kuffner, che divenne suo massimo collezionista e committente, e che sposò nel 1933, andando a vivere con lui a New York.

Dopo essere rimasta vedova, nel 1962 si trasferì a Houston, dove la sua vena creativa trovò nuova linfa, e iniziò a dipingere sostituendo la spatola al pennello.

Sosteneva di non seguire la moda, ma di “farla”: la sua statura decisamente al di sopra della media per l’epoca, unita al portamento e alla naturale classe, valorizzavano i capi ed accessori che disegnava lei stessa.

Femminista ante litteram, disinibita e amante della bella vita, visse senza regole, tra orge, viaggi, lusso e fama.

“Calle”

Lo stile della de Lempicka è assolutamente personale (seni conici e capelli simili a trucioli), influenzato dall’art déco e dai classici italiani che tanto amava, in particolare dal Pontormo.

I suoi quadri ammaliano per la sensualità che traspare nelle espressioni imbronciate, nelle pieghe degli abiti dipinte con maestria, negli sfondi che rimandano al cinquecento italiano, nella dovizia dei particolari che sembrano assurgere a testimonianza di chi è raffigurato, nell’amore per il bello delle perle lucenti e dei merletti trasparenti, nell’eleganza delle calle che ricorrono nella bellezza quasi rigorosa dell’essenzialità.

Tamara de Lempicka è una delle pochissime pittrici che hanno visto riconosciuto il proprio talento, ed è riuscita ad affermarsi in un’epoca non favorevole all’espressione della donna.

Coraggiosa, non si è mai lasciata intimorire da nulla: né dalle vicende politiche (il primo marito venne incarcerato dai bolscevichi, e il secondo, ebreo, sfuggì alle persecuzioni grazie ad una fuga ben studiata), né dalla morale comune, né tantomeno dalla sofferenza psicologica.

Il suo colore preferito era il grigio, dominante nell’arredamento della sua casa e del suo atélier, caratterizzati da un arredamento sobrio e raffinatissimo. I suoi quadri furono però coloratissimi, e famosa è la particolare tonalità di blu utilizzata dalla pittrice, denominata “blu Benois”.

Emblema della modernità, Tamara de Lempicka ne fu testimone dipingendo gli oggetti che appartengono al “nuovo”: il telefono, i grattacieli, l’automobile e le donne al volante, che fumano e portano i capelli alla maschietta.

Visse la vita che avrebbe voluto vivere, in bilico tra l’effimero, come l’amore per la moda, e l’arte, cui donò impegno e dedizione.

Nel 1934 toccò l’abisso della disperazione e si confidò con la superiora di un convento vicino Parma, che la ospitò per un breve periodo: a lei sola parlò della depressione che la dilaniava, aprendosi senza riserve. L’incontro rimase scolpito nel suo cuore, poiché ebbe l’impressione che “la suora raccogliesse su di sé tutto il dolore del mondo”. Volle imprimere quel volto, che aveva compreso la sua sofferenza senza giudicarla, in un ritratto di sublime bellezza che tenne sempre con sé, e solo dopo molti anni donò al museo delle Belle Arti di Nantes, che per primo acquistò una sua opera.

“Madre Superiora”

Un critico scrisse che quelle dipinte sono “lacrime di glicerina”, ignorando il realismo dello sguardo, del volto segnato e delle lacrime stesse, che rasenta la perfezione: difficilmente si perdona il talento, e se a possederlo è una donna gli omuncoli spremono bile.

Certamente Tamara non fu una moglie esemplare, totalmente estranea al concetto di fedeltà, espresso soltanto nei confronti di se stessa, libera di partire per un viaggio di una settimana e di tornare a casa dopo quattro mesi.

Non fu neanche una madre da manuale, così lontana dalla figlia Kizette, che ritrasse perfino insieme ad alcune delle sue amanti e che relegò per buona parte della sua vita in lussuosissimi collegi per assicurarle un’ottima formazione culturale, salvo escluderla nel testamento dall’eredità di numerosi beni, (e soprattutto dai propri quadri).

L’artista ebbe fortuna alterna, ma sostenne che la sua stella non si era mai oscurata. Venne dimenticata nel dopoguerra e tornò in auge grazie ad una mostra organizzata a Parigi nel 1972, cui presenziò con fatica per l’insorgere di problemi cognitivi che le fecero perdere l’orientamento spaziotemporale.

“Autoritratto”

Nel 1978 si trasferì in Messico, dove visse con lo scultore omosessuale Victor Contreras, e morì nel sonno due anni dopo. Rispettando le sue volontà, le sue ceneri vennero disperse dalla figlia sul vulcano Popocatepetl, che Tamara in vita scorgeva dalla finestra della propria casa.

“Ho dipinto re e prostitute…Non dipingo una persona perché è famosa, dipingo quelli che mi ispirano e mi fanno vibrare…”

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