L’ordine sessuale e gli artifici del piacere. Le pratiche contraccettive dall’Accademia delle dame a Freud

La donna vista dall’uomo

Il senso comune e la letteratura moralistica hanno ristretto la donna all’in- terno di un’ottica bipolare che da un lato la interpreta come discendente di Eva peccatrice e dall’altro la esalta come figlia spirituale di Maria. L’uomo se ne sente attratto ma ne ha anche paura, secondo uno schema mentale creato dal cristianesimo e agitato fino al XX secolo, quando Freud colle- gherà questo dualismo al timore maschile della castrazione e al “desiderio femminile di possedere un pene”. Nella tradizione cristiana, sulla scorta di San Paolo, San Gerolamo e Tertulliano e poi del notissimo manuale sulle streghe dei domenicani Sprenger e Krämer:Malleus maleficarum del 1490, la donna è un “essere malefico di cui Satana si serve per dannare l’uomo”, la “madre del peccato” che trascina gli uomini nell’abisso della sensualità. Nella tradizione morale controriformista la donna verrà demonizzata dal mondo ecclesiastico per la sua insaziabilità sessuale e per le sue esigenze orgasmiche. Fin da Galeno, medico greco del II secolo do- po Cristo, si riteneva infatti che durante l’orgasmo la donna emettesse un seme, parte integrante e necessaria alla riproduzione. Tale teoria percorre tutta la cultura occidentale medievale ed è accettata anche dalla maggio- ranza dei teologi cristiani dell’età moderna alcuni dei quali introducono la variante fondamentale che il seme femminile (e dunque l’orgasmo) non fosse indispensabile a concepire un figlio ma contribuisse a farlo nascere più sano e più bello. La giustificazione orgasmica resta sostanzialmente valida anche dopo la scoperta dell’ovaio femminile da parte di Reinier de Graaf (1641-1673), in quanto si continua a ritenere che l’“uovo della donna” sia il suo “vero sperma”. I termini della questione subiscono invece una svolta radicale dopo gli inizi degli anni ’40 del XIX secolo, quando Félix Archi- mède Pouchet (1847) giunge alla conclusione che l’ovulazione femminile è spontanea e indipendente dallo “spasmo voluttuoso”. In pratica da questo momento soltanto l’orgasmo dell’uomo diventa l’elemento indispensabile per la fecondazione, mentre alla donna compete soltanto una funzione ricettiva. Cade l’unico presupposto che fino ad allora aveva sostanzialmente giustificato il piacere sessuale della donna. Con tempismo, nel 1842, mon- signor Bouvier si schiera dalla parte di coloro che ritengono che “le donne non abbiano seme”, ma soltanto un liquido “il cui flusso inumidisce le pa- reti interne ed esterne della vulva”, provocando durante l’atto sessuale “una estrema voluttà”, peraltro non necessaria per concepire un figlio.

Ma c’è di più, in quanto la scoperta di Pouchet accredita indirettamen- te l’opinione che la donna frigida sia più idonea a mettere al mondo dei figli perché in grado di trattenere il seme maschile molto meglio di una donna voluttuosa. Un assioma che conduce poi, passando attraverso Ce- sare Lombroso e von Krafft-Ebing, fino al Novecento inoltrato, quando un docente di medicina legale all’Università di Milano, nel 1939, può sancire l’ininfluenza del fatto che “in un certo numero di donne l’appetito sessuale faccia addirittura difetto, tanto che la copula per esse è tutt’altro che un atto gradito”. Quel che importa è che malgrado questa frigidità non sia affatto esclusa “la possibilità del concepimento” e che anche queste donne possano avere “figli in abbondanza” (Ciampolini, 1939, p. 327).

In questo panorama culturale, le argomentazioni elaborate da Mantegazza in un’opera del 1864, Fisiologia del piacere, appaiono scomode e marginali fino al punto di suscitare contro l’autore l’accusa di immoralità, non tanto per la forma, quanto per i contenuti. Nel libro si sostiene che la donna sarebbe passiva soltanto in senso fisico, cioè nel senso di lasciare che sia l’uomo a gestire i movimenti durante l’atto sessuale, senza compier- ne a sua volta, ma di essere attiva in quanto a sensazioni. I termini della questione in questa maniera vengono completamente rovesciati: la donna si trova a partecipare al gesto sessuale in maniera superiore a quella dell’uo- mo. Infatti se è vero che “nell’atto della copula la donna è quasi pienamente passiva”, però è altrettanto vero che “non essendo impiegata la più piccola parte di forza al moto, tutta la [sua] tensione riesce rivolta al senso”. Cerca di nascondere “i palpiti” e “i frequenti desideri”, ma in realtà “aspira con maggior trasporto dell’uomo a questi piaceri, a lei resi ancora più seducenti dal mistero che le viene imposto dal pudore e dalla consuetudini sociali”.

Le “maggiori voluttà” riservate alla donna nella “funzione generativa” non sarebbero nient’altro che “un compenso pei dolori e pei pericoli” a cui è de- stinata a andare incontro durante la gravidanza e il parto; dunque una sorta di compensazione naturale per farle “dimenticare la lunga serie di sacrifici che può incontrare nel cedere al prepotente bisogno” (Mantegazza, 1959, p. 39).

Una interpretazione su cui però né la scienza, né la cultura dell’epoca saranno disposte ad aprire un dibattito che avrebbe finito per sconvolgere tutto un sistema di vita e di rapporti, mettendo in discussione la suprema- zia maschile nei confronti del sesso femminile. In realtà la seconda metà del XIX secolo è dominata dalla costruzione teorica di Cesare Lombroso e del suo collega tedesco von Krafft-Ebing: secondo i due psichiatri “la donna sente meno dell’uomo il bisogno dell’amplesso” anche se “ognuno può osservare che la grande preoccupazione di tutte le ragazze è l’uomo, il fidanzato, le nozze”. Una contraddizione che Lombroso spiega chiamando in causa “il bisogno della specie, della maternità” che in pratica è il solo incentivo che “spinge la donna verso l’uomo”. Dunque nella donna il richiamo erotico “è una funzione subordinata alla maternità” e quando questa regola non viene rispettata si manifesta “una esagerata e continuata libidi- ne” propria delle “criminali-nate” e delle “prostitute-nate”. Sulla stessa lunghezza d’onda von Krafft-Ebing per il quale una donna che è soggetta alle sollecitazioni del sesso rivela “condizioni morbose” che in primo luogo possono manifestarsi “con la smania di abbellirsi o addirittura con la ricer- ca degli uomini”. Secondo lo psichiatra tedesco “l’uomo sente più vivace il bisogno dell’amplesso” mentre una donna “d’intelligenza normale e buona educazione” manifesta un “desiderio sessuale languido”. Una regola che è necessaria al buon ordinamento civile, sociale e morale perché, “se così non fosse, il mondo intero diventerebbe un bordello” e non avrebbe alcun senso parlare di matrimonio e famiglia. In un contesto ordinato infatti “l’uomo che fugge la donna, e questa che cerca l’uomo” sono manifestazioni e fenomeni assolutamente anomali destinati a scardinare un sistema che esigeva una donna sessualmente passiva – non solo per educazione e per bon ton – ma soprattutto per un insieme di fattori organici che non predisponevano il sesso femminile al “godimento sensuale” ma a fornire soltanto “una prova d’amore” al suo compagno di vita.

Una frase riassume in maniera lampante la diversificazione concettuale tra uomo e donna in materia di comportamenti sessuali così come è co- dificata nell’Ottocento: per la donna “l’amore è vita”, mentre per l’uomo l’amore è “una gioia della vita”. Da cui una definitiva legittimazione della “doppia morale”, ribadita con argomentazioni che inquadravano e giudica- vano in maniera differente il comportamento sessuale dell’uomo, fornito di una “specifica sensibilità erotica” con il compito di sorreggerlo adeguata- mente nell’erezione e nel “lavoro non indifferente che precede l’emissione del seme”, da quello della donna, considerata invece non dotata di una “voluptas particolare” e dunque “parte essenzialmente passiva nell’atto della copula” (Ciampolini, 1939, pp. 327-28).

La teoria della buona fede

Tra il 395 e il 430 sant’Agostino afferma due principi etico-religosi che per diciotto secoli peseranno sui comportamenti sessuali di tutto l’Occi- dente: “la concupiscenza trasmette il peccato originale; il peccato originale è lasciato in retaggio all’umanità attraverso l’atto sessuale”. Da qui l’assimilazione del peccato originale al peccato sessuale e dunque il rifiuto del piacere attraverso la lotta alla concupiscenza della carne che per lunghi secoli marcerà di pari passo con i tentativi di resistere ai piaceri della gola. Ma non è da trascurare lo scarto che in ogni epoca è esistito tra la precetti- stica dei filosofi, dei teologi, dei moralisti, degli scienziati, che “tendono a rappresentare il mondo in astratto, in bianco e nero” e “l’effettivo comportamento sessuale” della vita quotidiana. In ogni società e in ogni tempo infatti “ci possono essere cose proclamate immorali e vietate dalla legge che poi però chiunque fa in chiara coscienza, un po’ come, al giorno d’oggi, violare i limiti di velocità in automobile” (Stone, 1995, pp. 20, 22). An- che per questo, a volte, le interpretazioni storiografiche possono giungere a conclusioni diametralmente opposte fra loro. Come succede nel caso del- la cosiddetta “rivoluzione sessuale” della seconda metà del Settecento che secondo Lawrence Stone si sarebbe manifestata fra la borghesia per poi estendersi agli altri ceti sociali, mentre per Edward Shorter sarebbe stata appannaggio delle classi operaie, per risalire in seguito alle classi borghesi e all’aristocrazia (Cerutti, 1982, p. 10).

Che una sensibile trasformazione nei comportamenti sessuali abbia preso le mosse nel corso del XVIII secolo, lo lascerebbe supporre la presa di posizione di Alfonso de’ Liguori che con la “teoria della buona fede” cercò di ricucire lo strappo che si era aperto fra la precettistica religiosa e i costumi reali. In effetti il teologo suggeriva ai confessori una minore invadenza e una maggiore tolleranza nei confronti del comportamento sessuale delle coppie regolarmente sposate: “Per quelli che sono peccati commessi nel matrimonio, chiedete solo alle mogli se hanno osservato il loro dovere coniugale; per il resto restate in silenzio a meno di non essere interrogati”. Si trattò di un’apertura che inquadrava con molto realismo il problema dellasessualità coniugale, anche se da altre parti della Chiesa nello stesso mo- mento si ribadivano posizioni più rigoriste, accusando le teorie di Alfonso de’ Liguori di rappresentare un via libera alla diffusione dell’onanismo coniugale. Che, a quanto pare, è già largamente diffuso in certe zone della Francia dalla fine del Settecento e che nel 1842 ha assunto proporzioni tali da turbare il vescovo di Le Mans: “non si trovano quasi più giovani sposi che vogliano avere una troppo numerosa famiglia”. Il religioso appare angosciato dal divario che nota fra le regole del suo credo religioso e i nuovi atteggiamenti sessuali che stanno prendendo il sopravvento: “nulla oggi è più frequente di questo detestabile costume tra i giovani sposi che cercando unicamente i piaceri del matrimonio, ed evitando i doveri, non vogliono avere figli o vogliono averli in numero determinato, e tuttavia si danno vergognosamente e senza freni alla passione, cercando di evitare gli effetti del coito”. In questo stato d’animo chiede lumi alla Sacra Congregazione della Penitenza ponendo due questioni fondamentali che vertono sulla constatazione oggettiva di una prassi ampiamente diffusa e sull’atteggiamento da tenere da parte dei confessori, che evidentemente in più casi erano costretti a trattare i temi dell’onanismo coniugale e della lussuria nel matrimonio con molti distinguo e più per dovere di ufficio che per reale convinzione di poter in qualche modo incidere sull’effettivo comportamento sessuale.

“1. Gli sposi che fanno uso del matrimonio in modo da impedire il concepimento commettono un atto in sé mortale?

2. Si deve approvare la condotta del confessore che, per non ferire le persone sposate si astiene dall’interrogarle sul modo con cui fanno uso del matrimonio?”.

Le risposte lasciano ampio margine di interpretazione: infatti separano nettamente i ruoli sessuali, tirando in causa una maliziadell’uomo e un adattamento passivo della donna, cosicché sarebbe solo l’uomo a peccare, mentre la donna si troverebbe nella condizione di essere costretta a “tollerare il peccato di suo marito”. Affermazione che diventa ancora più sibillina alla luce del fatto che in sé e per sé “il confessore non è tenuto a parlare dei peccati che gli sposi commetto- no relativamente ai doveri coniugali”. Alcuni decenni più tardi la stessa Penitenzieria, in riposta ad un analogo quesito del curato di Angers, tende a precisare che non è accettabile che gli stessi confessori “incoraggino nei penitenti in buona fede l’idea che la contraccezione non sia peccato”, arri- vando poi a chiarire definitivamente nel 1901 che in nessun caso un prete può assolvere una persona su cui cade il sospetto di “onanista impenitente” (Flandrin, 1980, pp. 116-17). Che il “peccato onanistico” sia per tutto il XIX secolo in forte ascesa lo dimostrano anche i riferimenti circostanziati delle relazioni che i vescovi spedivano a Roma in occasione della loro visita ad limina,insieme al riscontro oggettivo della progressiva flessione dei tassi di natalità. Complici certamente le opere di Jeremy Bentham [1798], James Mill [1818] e Francis Place [1822], ma anche la lavorazione del caucciù, che, dopo il 1843, grazie alla scoperta della vulcanizzazione di Goodyear, consentirà la fabbricazione di preservativi in gomma, la messa a punto nel 1880 del diaframma vaginale, l’introduzione nel 1924 del metodo di Ogino, che, sebbene venga accettato dalla Chiesa solo nel 1951, ricalca peraltro un sistema teorizzato fin dal 1833 che prevedeva l’asten- sione da ogni rapporto sessuale 3-4 giorni prima delle mestruazioni e per 14 giorni subito dopo16. Un testimone di fine Ottocento, Paolo Mantegazza, evidenziava che il problema era quanto mai attuale: “nel seno della famiglia ognuno per conto proprio risolve il problema dell’equilibrio fra la popola- zione e la sussistenza e in quasi tutta Europa le statistiche dimostrano gli effetti di questi singoli sforzi di limitata produzione”. Insomma, la prassi di limitare le nascite era ormai “divenuta popolare” decretando il trionfo di Malthus “nel seno di cento, mille famiglie” dove “l’uomo moltissime volte ama, ma non genera” per sua libera scelta (Mantegazza, 1889, pp. 344-45). Il famoso medico, senatore e antropologo ritorna sull’argomento in un’altra opera pubblicata nel 1881 in collaborazione con la scrittrice Neera; anche in questo caso sottolinea la tendenza diffusissima a far uso di “artifici per non avere figlioli” e a ricorrere a “mezzi per distruggere il già fatto” almeno in quegli ambienti sociali in cui “gli impegni della famiglia, le esigenze della società, la vita pubblica ed esteriore” fanno sì “che una numerosa figliolanza non sia più desiderata come un tempo. Anzi d’anno in anno si viene sempre più manifestando negli sposi l’avversione alla prole e si moltiplicano con ricerche insistenti gli artifici per non avere figliuoli” (Mantegazza, Neera, 1985, p. 183). Il reverendo Louvel nel 1880 riconosce che il coitus interruptus è “un delitto oggi commesso assai di frequente dalle spose” (Louvel, 1995, p. 44) e nel 1894 monsignor D’Hulst parlerà di “voglie sfrenate” e di conseguenti “precauzioni sacrileghe” di cui le donne erano le principali responsabili, mentre Petrai, autore nello stesso anno di Bacco, tabacco e Venere si scaglierà contro la “sozzura che lorda spesso il talamo” attribuendone la principale responsabilità agli uomini. Anche Sigmund Freud, nell’opera La morale sessuale “civile” e il nervosismo moderno del 1908, interverrà sull’argomento con un giudizio negativo nei confronti di “tutte quelle forme di contatto tra i due sessi con le quali si elude l’obbligo della procreazione”. Il padre della psicanalisi si trova sulle posizioni di chi propugnava “l’eroico autocontrollo e la virile resistenza alla tentazione, così come insegnano la Chiesa e lo Stato”, fino a definire tutti i sistemi anticoncezionali come “eticamente riprovevoli”, in quanto degraderebbero “le relazioni d’amore, che sono una cosa seria, ad un comodo gioco senza pericolo e senza partecipazione spirituale” (Wagner, 1990, pp. 115-16). Non ho intenzione in questa sede di passare in rassegna le posizioni pro e contro i sistemi contraccettivi; mi preme piuttosto rilevare che il dibattito in atto a cavallo dei due secoli dimostra che le pratiche neomaltu- siane avevano trovato largo seguito in Europa e anche in Italia. L’opera di Charles R. Drysdale (pubblicata in italiano nel 1874 con il titolo Elementi di scienza sociale ossia religione fisica, sessuale e naturale: un malloppo di 600 pagine!) conosce in sette anni ben quattro edizioni.

Per non restare incinte

Come si può notare in un’anomala relazione amorosa di un prete e di una ragazza, entrambi i protagonisti ricorrono o credono di ricorrere a espedienti antifecondanti: don Luigi assicura Geltrude di aver preso un veleno che la metterà al riparo da ogni rischio; a Geltrude le donne del vicinato che sanno dei suoi rapporti con il prete attribuiscono l’uso del chinino. Anche in un piccolo paese di montagna, negli anni che seguono la nascita del Regno d’Italia, gli uomini e (forse in misura ancora maggiore) le donne cercavano di limitare le gravidanze. Proviamo ad entrare in questo mondo di espedienti partendo dall’uso del bidet che fa la sua apparizione nella prima metà del XVIII secolo. Antoine Bret, in Le B**** ou Histoire bavarde del 1748 parla del bidet senza tuttavia nominarlo mai direttamente; nello stesso anno il marchese Jean-Baptiste de Boyer in Thérèse philosophe gli dedica un intero capitolo: “Utilité des bidets”. In La philosophie dans le boudoir, che de Sade pubblica nel 1795, l’uso del bidet è sconsigliato perché “desideri e titillamenti sarebbero smorzati subito dalle pratiche igieniche” (de Sade, 1986, p. 87). L’anonimo autore de L’enfant du bordel, sempre della fine del Settecento, descrive un complicato rapporto a tre dove alla fine una signora si ritira in un “piccolo guardaroba per fare le necessarie abluzioni” (L’enfant du bordel, 1992, p. 76). Come si può notare da queste testimonianze letterarie per tutto il secolo l’oggetto è strettamente legato alle pratiche sessuali. Confinato in un alone di indecenza e di strumento del peccato, il bidet veniva anche definito violon, accostandone la forma a quella dell’omonimo strumento musicale, ma soprattutto per richiamarne le valenze erotiche attraverso la metafora musicale. Una stampa pornografica di Thomas Rowlandson del 1843, Il concerto, raffigura un uomo seduto in poltrona intento a compiere un atto sessuale con una donna che gli è assisa a cavalcioni volgendogli le spalle19. Questa regge sulla schiena uno spartito e l’uomo suona il violino. In questo caso è esplicito l’accostamento del suonare uno strumento con l’atto sessuale. Analogamente funziona l’accostamento violon/bidet: prima il rapporto sessuale (suonare il violino) e poi l’uso del bidet per un’abluzione a posteriori con acqua tiepida e aceto per impedire la fecondazione. Il bidet in questo caso si affianca o sostituisce analoghe manovre praticate con marchingegni più appariscenti, come l’instrumento di Pleisse, l’irrigatore Aiguisier, cannule e siringhe21, documentate in incisioni del Seicento ma anche in opere del Novecento. “Dopo la prima estasi”, si legge nell’autobiografia erotica di Frank Har- ris pubblicata nel 1922, “la pregai di far uso della siringa”. Anche un manuale medico della seconda metà dell’Ottocento consiglia quello che è ritenuto “il meno cattivo dei metodi maltusiani” e cioè “di fare subito dopo il coito un’iniezione abbondante e forte d’acqua fredda o meglio tiepida nei genitali femminili” (Tonini, 1873, pp. 350-51). Ma è chiaro che manovre di questo tipo potevano essere surrogate anche da lavaggi sul bidet o su un semplice catino che non mancava mai nella camera da letto coniugale. Sulla base di questa accezione l’uso del bidet ha continuato ad essere visto con grande sospetto e ad essere collegato all’intenzione di “vanificare gli effetti del coito, distruggendo e facendo sparire dalla vagina la materia fecondante che vi è stata depositata dall’uomo” (Beaupré, Guerrand, 1997, p. 99).

L’autorevole opera medica di Charles R. Drysdale, che fra il 1854 e il 1887 conobbe ben 26 edizioni in tutta Europa, prevedeva sia l’uso di una siringa, sia la semplice operazione manuale. L’efficacia di queste abluzioni però non sempre risultava all’altezza delle aspettative e spesso si finiva per “baciare il culo a Caino”, come in certe parti d’Italia si definiva una gravidanza indesiderata. Spesso non avevano maggiori probabilità di successo della credenza femminile che durante il rapporto sessuale bastasse “muoversi il più possibile per impedire al seme di penetrare nella matrice”, ma questo non impediva alle donne di crederci, come d’altra parte si crede- va che certi unguenti, certi suffumigi e il riposo a “cosce strette” dopo il rapporto favorissero la fecondazione.

Esistevano poi altre soluzioni per non correre il rischio di rimanere incinte. Così, mentre un proverbio veronese ammoniva molto prosaicamente che “casso in culo, no fa fanciulo” (Corso, 1914, p. 97) e un proverbio finnico suggeriva che “con il sedere si trebbia e con la bocca si semina”, von Krafft-Ebing ricordava più forbitamente che, per “il timore di nuove gravidanze”, la paedicatio uxorumera una pratica che veniva scelta dagli uomini e tollerata dalle donne (von Krafft-Ebing, 1889, p. 161).

Le tracce di queste esperienze si infittiscono dal XVIII secolo in poi, proprio in concomitanza con una maggiore attenzione al problema demo- grafico tramite il ricorso al coitus interruptus. In Thérese Philosophe, un dialogo pornografico del 1748, si teorizzava un tipo di rapporto sessuale che non avrebbe comportato “alcun pericolo che nasca un bambino”. Ci voleva però un “amante saggio” e “padrone delle proprie emozioni” in modo di essere in grado di controllare “l’ondata di piacere” e di scegliere il momento opportuno per “ritirare l’uccello dal nido” e arrivare così ad una eiaculazione “sicura” con “alcuni abili colpi” della sua mano o di quella della partner (Darnton, 1997, pp. 266, 285). In altri casi l’iniziativa era tutta al femminile. È quanto succede ad esempio nel romanzo di Apollinai- re, Le prodezze di un giovane Don Giovanni, del 1811: “Stavo per godere anch’io, lei se ne accorse e si alzò di colpo. – Trattieniti, amico mio – mi disse con voce ancora tremante di voluttà – conosco un sistema che ti farà godere senza rendermi incinta –” (Apollinaire, 1993, p. 66).

Nel 1827, monsignor Bouvier vescovo di Le Mans cerca di intervenire sulle questioni inerenti al VI e al IX comandamento accomunando l’eiaculazione “fuori dal vaso naturale: nella parte posteriore, nella bocca, tra i seni, tra le gambe o le cosce”, ad una vera e propria “specie di sodomia” consumata tra persone di sesso diverso. In effetti la sua Dissertatio in sextum decalogi praeceptum precisa che, mentre per “sodomia completa” deve intendersi “l’accoppiamento con un sesso non giusto, e cioè un uomo con un uomo, una donna con una donna, qualunque sia la parte del corpo in cui ha luogo”, si cade nella “sodomia incompleta” nel caso in cui in un rap- porto eterosessuale si consegue il piacere con “un organo diverso da quello naturale”. In questo caso non si tratta di un peccato “per l’uso di un sesso proibito”, ma di “una gravissima iniquità”, di “una vergognosa profanazione della carne”, di “un abuso abominevole degli organi genitali che denota una predisposizione irresistibile alla lussuria”. Non solo sono venuti a meno gli spazi di manovra ammessi da San Tommaso con la proposizione paulisper tantisper licet ludere in ano, intesa nel senso che “se la tua donna, durante le mestruazioni, non potrà accoglierti, tu te ne starai lontano” cercando di “domare gli stimoli della carne” e solo nel caso in cui questi “fossero più potenti di te, non cercherai di altra donna, piuttosto godrai di lei in quel modo che potrai meglio” (Rifelli, Ziglio, 1991, p. 153), ma ora si prospettano anche gravi danni alla salute e al sistema nervoso quando l’uomo e la donna con la lingua e con la bocca cercassero di acuire al massimo i piaceri. Anche il coitus interruptus, che Mantegazza definiva la “ritirata prima della finale catastrofe”, non era giudicato esente da effetti collaterali in quanto provocava sull’uomo “una scossa” sul cervello e sul midollo spinale, mentre per la donna significava insoddisfazione e frustrazione, come con “un sorso d’acqua fresca bevuto con immenso desiderio e poi buttato fuori dalla bocca prima di poterlo inghiottire” (Mantegazza, 1889, pp. 348-49).

Un discorso a parte merita il condom, il “guanto protettore” che Casano- va dice inventato dagli inglesi e che i francesi chiamavano invece “piccolo sacchetto di pelle di Venezia”. In realtà è il medico Fallopio in un’opera del 1564 ad attribuirsi il merito di averlo portato alla ribalta, ma il suo uso era consigliato non tanto per evitare il concepimento quanto per salvaguardarsi dalla sifilide30. Certamente prima della fine del XIX secolo svolse princi- palmente questo compito ed era diffuso soltanto in certi ambienti altolocati e durante rapporti con prostitute. E anche molto malvolentieri in quanto limitava il piacere maschile, era poco sicuro perché non aderiva perfetta- mente e richiedeva una grande accortezza nell’applicarlo. Si sa che James Boswell, figlio di un lord scozzese, nel 1763 acquistò dei preservativi a Londra in un negozio di Half Moon Street per usarli con una compagna occasionale e due anni più tardi se ne servì per un fugace rapporto sessuale con la moglie del sindaco di Siena. Ma per il resto, Boswell preferì farne a meno, a costo di passare da un’infezione venerea ad un’altra!31 D’altra parte la sua diffusione si scontrava col fatto che non era né a buon mercato né di facile preparazione. Fino alla scoperta della vulcanizzazione della gomma era per lo più composto da un intestino cieco di pecora che veniva immerso in acqua e quindi lavato “in una soluzione di soda” per cinque o sei volte. Infine si toglieva “la membrana mucosa con l’unghia”, lo si trattava con dello zolfo e infine si lavava accuratamente con acqua e sapone. Si applicava al pene mediante un nastro e veniva espressamente consigliato “per prevenire infezioni o gravidanze” (Tannahill, 1994, p. 352). Solo alla fine del secolo il lattice liquido e i processi di lavorazione industriali permisero una notevole riduzione del prezzo e infine una diffusione di massa durante la Prima guerra mondiale, quando ai soldati, assieme all’uso delle armi, si insegnarono anche i metodi di difesa dalle malattie veneree. Il soldato fran- cese riceveva in dotazione unguento di calomelano e un preservativo32 che dunque si affiancava ai rimedi più tradizionali.

Accanto a questo sistema di competenza maschile esistevano poi interventi più propriamente femminili. Come dimostra l’Accademia delle dame un’opera di Chorier del 1691. L’autore in questo caso parte con lo smontare la stretta correlazione tra seme e fecondazione ed esaltare la masturbazione e l’onanismo coniugale, sostenendo che “tutto quel seme che ne’ lombi degli uomini e della donna concuocesi non è per necessità dovuto alla riproduzione”. Anzi, “sarebbe da pazzo credere” che tutto il seme si debba impiegare per far nascere figli e lo dimostrerebbe il fatto che non si può procurare una “nuova gravidanza fottendo la moglie gravida”. La conclusione è dunque un’esaltazione del piacere sessuale in quanto tale e anche al di fuori del matrimonio. Come si “corrompe” l’acqua in un pozzo, così il “seme femminile” che ristagna nella vagina senza essere utilizzato può provocare effetti deleteri alla salute. Ecco allora un invito a far libero uso della propria sessualità e a usare le dovute precauzioni anticoncezionali sotto forma di pessari. “Avviene che i medici, introdotti nella potta della fanciulla certi ordigni di morbidissima lana chiamati da loro pessari, la stimolino al piacere, e con ciò sciolgono da’ più cupi luoghi lo stagnante marcito se- me, che alla non maritata di così gravi morbi è cagione” (Chorier, 1990, pp. 180-81). Restif de La Bretonne33 e de Sade parlano di spugne da in- trodurre all’interno della vagina per assorbire lo sperma. Un opuscolo del 1832 di Francis Place consiglia “ai coniugati di entrambi i sessi” un pezzo di “soffice spugna della dimensione di una pallina” per “prevenire infelicità e miseria”. In un’opera medica del 1867 si parla di “pezzi globosi di spugna involti in tela cerata” che però all’epoca erano già stati soppiantati dai “superiori vantaggi dei pessari di gomma” (West, 1868, p. 198). Anche un dépliant fatto circolare quasi clandestinamente fra il 1958-‘59 contiene istruzioni per la preparazione casalinga di tamponi vaginali e di “spugne di gomma espansa” da immergere in “antifecondativi fatti in casa” usando acqua, aceto, olio, burro o una “soluzione saponosa”. L’unica novità di quegli anni rispetto al passato consisteva in una “compressa schiumogena in vendita a prezzi ragionevoli” (Barbanti, 1995, pp. 346-47).

Se la letteratura non manca di descrivere casi di coitus interruptus a volte per iniziativa dell’uomo: “Oreste, più attento di lei al di lei bene, ritrasse la sua spilla dal gioco senza concludere”; a volte per iniziativa della donna: “anche l’eccitazione del principe aumentava sempre più e, al mio abbandono completo, spinto lontano, al sicuro dalle conseguenze, arrivò anche per lui la voluttà”, sull’argomento non mancano neppure testimonianze d’archivio. Oltre all’originale sistema anticoncezionale descritto in un processo del 1913, quando l’uomo, racconta la giovane, “appena com- piuto l’atto, mi tirò giù dal letto, mi batteva la schiena con le mani e mi fece bere un bicchiere d’acqua zuccherata”, il coitus interruptus sembra una prerogativa d’ambo i sessi. In un processo per “stupro per pregnanza” del 1794 appare rilevante il ruolo della donna, almeno nella versione forni- ta dall’attempato amante: “Mi slacciò lei medesima i calzoni, si pose per terra, si alzò i panni e io gli fui sopra e la conobbi carnalmente, ma l’atto che fu compiuto dentro, credo che poi la materia andasse fuori, perché detta Rosa in quest’atto si rivoltò, ed io avendola richiesta a dirmi perché si fosse contenuta, rispose che, giovanotta com’era, non voleva farsi ingravidare, al che io soggiunsi che in quella maniera non ci avevo gusto” (Palombari- ni, 1993, p. 130). In altre testimonianze dei primi dell’Ottocento si rileva invece la sistematica iniziativa dell’uomo; un canapino dichiara ai giudici che ha avuto per un anno intero rapporti completi con la fidanzata, ma di essere sicuro di non poter essere l’autore della sua gravidanza perché lui, “quando era per corrompersi, tirava fuori il suo membro e si corrompeva fuori” (Casadio, 1987, p. 92). La quindicenne Luigia e la diciassettenne Sebastiana superano la paura “di rimanere gravide se ci lasciavamo trat- tare” dopo aver ricevuto formale assicurazione che “ci avrebbe trattato in maniera da non ingravidarci”. Il seduttore è un chierico detto “Barbarancia” di 24 anni che ha rapporti con le due ragazze in casa della Checca che entrambe frequentano per imparare l’arte del telaro. Ecco il racconto di Luigia: “[Dopo essersi preso] delle libertà con toccarmi il petto più volte, mi ritirai presso un nicchietto a piano terra dove, dettomi, che mi dovessi alzare la sottana, tirò fuori il suo membro grosso e duro ed appoggiatomelo alla natura, stando ambedue in piedi, me ne introdusse una parte del suo membro, finché non si corruppe, gettando però con le mani un certo non so che, come il latte, che gli uscì dal membro, dicendomi che così faceva perché a suo dire se lo facevo entrare nella mia natura mi avrebbe ingravidato [. . . ]. Quando introdusse nella mia natura il suo membro, io sentì un gran dolore e la natura fece un chioppo, fu allora che cominciavamo a sentirsi un maggior gusto, come dicevo, allora lo cavò e con le mani gettò per terra il seme, così da lui chiamato. La Sebastiana se ne stette sulla porta e nessuno entrò così che ci mantenessimo a prenderci piaceri per un quarto o mezzo quarto d’ora incirca, introducendolo e cavandolo, e di nuovo l’introduceva dopo però averlo pulito. Devo di più deporre che prima di trattare con me, trattò colla detta Sebastiana, nella stessa nicchia, mentre io stavo sulla porta di casa”. Anche Carmine, che amoreggia con Teresa per due anni e mezzo, dopo i primi approcci (“incominciò a toccarmi nel petto e nella natura”), pretende di “fare quello che fa il marito con la moglie”. La ragazza però è titubante “specialmente perché potevo rimaner gravida”, ma allora il giovane ventunenne è pronto a replicare che “come faceva lui non poteva succedere niente”. La deflorazione avviene una sera di luna piena e gli incontri intimi si susseguono con regolarità, ma Teresa rimane incinta perché in realtà l’uomo, evidentemente troppo sicuro di sé, “qualche volta ha seminato nella mia natura e qualche altra volta no, e mi diceva che non ci seminava per non ingravidarmi”.

Ma tutto questo non impediva che le donne vivessero “i rapporti ses- suali con nervosa attenzione” e che, come estrema ratio, facessero ricorso anche a pratiche e a sostanze abortive. Nelle Confessions di Jean-Jacques Bouchard (1606-1644) si cita l’artemisia e l’aristolochia, quali erbe dai po- teri abortivi e sterilizzanti, da “mettere sulla bocca del sesso”; altre fonti rivolgono la loro attenzione a interventi post-coitum con infusi di erbe e radici di capelvenere, finocchio e persici e perfino con l’ingestione di “ar- gento vivo”, cioè mercurio, che era possibile acquistare nelle spezierie39. In farmacia l’attempato Carlo “la Bestia”, nel 1794, compra dell’argento vivo che fa bere alla sua giovane amante “dentro una scorza d’ovo”; nel 1847, un canonico chiede al medico e poi al farmacista del paese della limatura di ferro e dei marziali per somministrare ad una giovane con cui aveva una relazione amorosa. In un altro caso del 1858 una ragazza rimasta incinta ricorre a delle erbe di capelvenere per far tornare le mestruazione (praticamente per abortire) dietro suggerimento della madre e nel 1839 il cagliaritano Giovanni Muso cerca di far abortire la sua giovane servente da lui violentata sottoponendola ad un salasso e quindi facendole bere una non meglio specificata pozione42.

“Quando l’astinenza veniva meno, il coito interrotto falliva e le docce e gli altri rimedi si dimostravano inefficaci” (De Grazia, 1993, pp. 84, 92), complici le levatrici, le mammane o altre donne più esperte si cercava in tutti i modi di “sperdere la cosa” (Covoni, 1997-98, p. 50). Sia con “la cura dell’acqua fredda”, sia con “un infuso di aglio, amianto e prezzemo- lo”43, in una rete si solidarietà e di complicità che per la donna che vuole interrompere una gravidanza è tutta al femminile. Ma il ventaglio delle tecniche abortive non si fermava qui: altrettanto usuali erano il ferro da calza e l’uncinetto, le sonde di gomme, i manici dei cucchiai in legno, le matite, i termometri, i gambi di sedano e i rametti d’edera. A cui si accompagnava l’ingestione di chinino, di segale cornuta, di purganti e il ricorso a iniezioni a base di alcol, acqua e tintura di iodio, acqua e sapone, siero di follicoli- na, acqua ossigenata44, solfato di chinino. Un farmacista italiano alla fine dell’Ottocento prescrive alle donne di sciogliere in un litro di acqua bol- lente due grammi di chinino e due grammi di acido timico e di iniettarsene una siringa dopo ogni rapporto sessuale (Sorcinelli, 1988, p.163). Un te- sto tedesco del 1910 cita come un “mezzo preventivo chimico-fisico” le “irrigazioni vaginali, subito dopo l’assalto sessuale con acqua pura, o con acqua alluminata, o con solfato di rame, solfato di chinino, e via via. Le irrigazioni debbono essere praticate mentre la donna è ancora coricata, e profondamente”. Tuttavia, avverte ancora il testo, “la loro efficacia è molto incerta” (Bloch, 1910, pp. 530-31).

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