La donna freudiana: evoluzione del concetto di femminilità nel pensiero di S.Freud

Le prime teorie di Freud sulla sessualità, presentate in forma compiuta nei “Tre saggi sulla teoria sessuale” del 1905, che riassumono ed elaborano i risultati dei primi anni dell’esperienza acquisita con la pratica del nuovo metodo analitico (sui cui contenuti circa il complesso edipico e le sue conseguenze cliniche non mi soffermo, essendo noti), pongono ancora una equazione tra lo sviluppo psichico della sessualità adulta maschile e femminile. L’attaccamento edipico al genitore di sesso opposto ed il conseguente odio verso il genitore del medesimo sesso sembrano essere il comune denominatore del percorso di sviluppo verso la maturità sessuale sia sul versante maschile che femminile. L’impalcatura teorica dell’Edipo proposta da Freud sembrava allora rispondere soddisfacentemente alle questioni che la pratica clinica gli sottoponeva, finendo in tal modo per proporsi come l’insegna stessa del neonato metodo psicoanalitico. Le fasi di sviluppo della sessualità infantile, contraddistinte dalle diverse zone erogene, finiscono presto per essere scambiate con l’ennesima panacea capace di spiegare e guarire i mali (e i malumori) del nuovo secolo. È la fase del grande ottimismo terapeutico del primo Freud, che pur restando valida nella sua essenza, dovrà subire le correzioni e le aggiunte che l’esperienza clinica impone a ridosso del 1920, quando i nuovi concetti di pulsione di morte e fase fallica costringono Freud a riformulare le precedenti teorie circa narcisismo, masochismo e, non ultima, sessualità femminile. È nel 1923 infatti, nel saggio su “L’organizzazione genitale infantile” che Freud postula, aggiungendola alle precedenti, l’esistenza, nello sviluppo psicosessuale tanto del maschietto quanto della bambina, di una fase detta fallica, caratterizzata dalla conoscenza di un unico genitale sessuale, il fallo nella sua manifestazione biologica del pene maschile; questa fase che precede ovviamente la genitalità matura, capace cioè di riconoscere un valore sessuale specifico anche all’organo femminile, questa fase che pone l’esistenza di un genitale unico, finisce per far crollare definitivamente la precedente equazione tra lo sviluppo dell’Edipo nel maschio e nella femmina. La condivisione di un unico e solo riferimento investito del plus-valore sessuale, all’interno della dialettica edipica, pone le basi per quello che verrà teorizzato come il complesso di castrazione, nelle sue ormai differenti versioni che caratterizzano il percorso di sessuazione maschile e femminile. Se al maschile il diventare uomo passa attraverso il timore della castrazione paterna, che costituisce il fondamento stesso della rinuncia alla competizione edipica per il primo oggetto d’amore, materno, e l’instaurarsi (a livello antropologico) del tabù dell’incesto, ecco che nella sua coniugazione al femminile ci si trova davanti uno scenario opposto: la possibilità di riconoscersi donna passa attraverso una dolorosa accettazione della castrazione, così come la bambina ancora inconsapevole vive l’assenza sul proprio corpo del pene posto in questa fase come solo genitale possibile. Da un lato il timore di perdere ciò che c’è, dall’altro la certezza dell’assenza, la ricerca disperata di un risarcimento (ad esempio un figlio dal padre edipico), e la rivendicazione, presto tramutata in odio, per non aver ricevuto o per aver perduto l’oggetto sovrainvestito. Molte ancora sono le novità introdotte da Freud a seguito dell’esperienza analitica accumulata con le pazienti donne: il difficile (e per nulla scontato) passaggio “di consegne” tra il clitoride e la vagina come organo sessuale femminile; il primo proponibile come piccolo pene, l’altra certamente di natura differente, fuori dall’ordine del visibile, del constatabile, del confrontabile: fuori quindi dal sistema di riferimento tipico ed irrinunciabile della genitalità maschile che contraddistingue la suddetta fase fallica. Di poco successivo, del 1924, è poi il saggio sul “Tramonto del complesso edipico” che prosegue le tematiche ora introdotte, arricchendo l’analisi di nuovi spunti, osservazioni e deduzioni. La prima, da cui prende le mosse il titolo stesso del saggio, riguarda l’ulteriore dissimmetria che si pone tra il percorso dell’Edipo maschile e femminile: se il maschietto infatti esce dalla competizione edipica, come già detto, perché angosciato dalla minaccia di castrazione paterna, sul versante femminile uno scenario completamente nuovo si staglia all’orizzonte dello sguardo clinico di Freud; oltre alla rivendicazione che la bambina fa propria, si impone la reazione incredula di fronte alla castrazione materna, ulteriore sconfitta logica rispetto alle attese che la fase fallica poneva in essere. Se il maschietto nel rinunciare alla madre a favore del padre edipico, conserva comunque il prezioso genitale, evitando la temuta castrazione, la bambina non solo non rinviene sul proprio corpo lo stesso, ma nell’osservare la stessa mancanza sul corpo della madre, non può che rivolgersi altrove, al padre, entrando in tal modo nell’Edipo nel momento in cui il maschetto ne sta uscendo. La bambina cioè entra nell’Edipo rinunciando all’originaria identificazione con il genitore dello stesso sesso, e rivolgendosi altrove, nello stesso frangente in cui il maschietto ha già avuto modo di trovare (già pronta) la sua identità sessuale. Risulta evidente che se l’Edipo maschile continua ad essere il modello restato quasi invariato dei primo saggi, quello femminile è invece un universo ancora tutto da esplorare, dotato di una complessità che sfugge alla meccanicità forse banale del percorso maschile. In questi anni è di Freud una frase che sarà in seguito ridimensionata ed alla quale verrà data una lettura differente dallo stesso Freud, secondo cui la donna sarebbe un uomo castrato, partendo dal presupposto che le “differenze anatomiche tra i sessi” dell’articolo del 1925 non trovano facilmente un corrispettivo psichico femminile capace di offrire una identificazione semplice ed immediata come avviene sul versante maschile. La donna (e la bambina prima di lei) rischia di rimanere invischiata in una ricerca del pene sostitutivo che la lega al padre reale, fallico dell’Edipo, oppure alla madre solo immaginariamente fallica del pre-Edipo (come nel caso di Dora), impedendole il superamento dello scoglio-fallico. Freud riprende in mano l’enigma della femminilità soltanto alcuni anni dopo, nell’intento (ancora non definitivo, ma del resto non sarà mai tale) di delinearne i confini, quando nel 1931 pubblica il saggio sulla “Sessualità femminile”, che parte da un fitto e ramificato scambio di opinioni con le giovani colleghe donne, che nella loro esperienza terapeutica potevano aver incontrato, nel transfert, degli elementi differenti per comprendere la complessa natura del femminile. L’incontro di una paziente donna con una analista del medesimo sesso avrebbe potuto infatti, osserva Freud partendo dalle esperienze delle colleghe, porre in primo piano e far riemergere da dietro l’impalcatura edipica, quindi a discapito della figura paterna, l’originario attaccamento pre-edipico alla madre, prima figura su cui era caduta l’identificazione iniziale, poi abbandonata per entrare nell’Edipo in seguito alle già citate rivendicazioni, ed all’odio che la mancanza di valore fallico (e del fallo stesso) suscitavano. Alla luce di questo nuovo (ma cronologicamente antico) legame madre-figlia, Freud non indugia perfino a riprendere in mano per correggerla nuovamente, la ormai vecchia teoria della seduzione del carteggio con Fliess, osservando ora come le fantasie di seduzione che le prime pazienti (quelle del “non credo più ai miei neurotica” del 1897) imputavano sempre alla figura paterna, tra la possibile realtà di scene incestuose e le più frequenti fantasie edipiche, siano invece da ricondurre senza dubbio a primordiali scene reali di seduzione da parte della madre, più comprensibilmente intenta a prendersi cura della neonata, laddove una carezza di troppo non subisce nemmeno la censura rispetto all’orrore dell’incesto. Dietro ad ogni padre seduttore (solo nelle fantasie) secondo Freud, c’è quindi una madre realmente seduttrice che è stata rimossa, a maggior ragione se si considera quel particolarissimo rapporto fusionale che caratterizza il rapporto madre-figlia nel periodo pre-edipico. È quello che Freud descrive facendo ricorso alla famosa metafora della civiltà minoico-micenea che l’archeologia ha scoperto aver preceduto quella greca. L’interesse di Freud per il femminile si fa a questo punto più maturo, esce dallo schema dell’Edipo per interrogarsi su quali possano essere le direzioni di sviluppo possibili di una bambina di fronte alla scoperta dell’evirazione, e ne rinviene tre: l’abbandono totale della sessualità, la ricerca di atteggiamenti e caratteristiche proprie della mascolinità, il così detto complesso di mascolinità, che comporta una non accettazione della castrazione, un suo rifiuto, ed infine il suo contrario, la possibiltà di avere accesso alla femminilità matura (“normale” come la chiama Freud), che comporta il lutto del fallo, l’accettazione della castrazione, l’ingresso nell’Edipo e il lento riconoscimento della femminilità anche della madre, a fronte dell’ambivalenza che ne aveva provocato il brusco distacco. Proprio sul distacco rispetto alla madre Freud s’interroga ulteriormente, isolando i motivi più frequentemente riscontrati nella clinica: oltre al fatto di non aver dotato la figlia del fallo, trovano posto l’interdizione della masturbazione, eventuali conflitti d’intrusione rispetto a fratelli minori, rivendicazioni su un insufficiente allattamento (argomento questo che proprio in sede ABA trova la sua piattaforma naturale per un approfondimento: bisognerebbe chiedersi se un’analisi di un caso di Anoressia/Bulimia si possa considerare completa se non ha sfiorato il tasto del rapporto con la madre come colei che per prima nutre e che per prima sottrae la fonte del nutrimento…) Insomma, si può concludere che il motivo di fondo del distacco dalla madre, ciò che si pone come comune denominatore tra le menzionate ragioni è l’odio per la madre in quanto non fallica, non più immaginariamente fallica. Concludendo l’excursus sui testi di Freud dedicati alla femminilità, troviamo a guisa di compendio finale (ma senza pretesi di teoria definitiva, perché Freud ha l’umiltà di rinviare per la soluzione dell’enigma del femminile “ai poeti o alle donne stesse”) la lezione 33 dell’Introduzione alla psicoanalisi dedicata alla “Femminilità”. Tra le nuove osservazioni la prima va a smentire una presunta precedente equazione tra anatomia e destino (“L’anatomia è un destino”), visto che Freud ha avuto modo di constatare ulteriormente nell’esperienza clinica che se l’anatomia della vagina offre un possibile destino femminile, nell’inconscio all’inverso l’anatomia dominante tende a restare legata alla parvenza fallica della clitoride, creando quella confusione di fondo, quell’incertezza sulla sessualità che si svela alla base dell’isteria prevalentemente femminile. La donna freudiana si può dunque concludere che sia la madre, nel senso che è solo nell’identificazione alla madre non immaginariamente fallica che la femminilità è raggiunta; è dunque nell’equazione madre = donna che Freud conclude la sua ricerca inevitabilmente incompleta. Il saggio del 1932 contiene anche un’osservazione clinica su un caso della Brunswick (del 1928) in cui una fissazione allo stadio pre-edipico, un Edipo quindi mancato, assente, portava ad una diagnosi di gelosia paranoica. Oggi, dopo l’approfondimento improntato da Lacan al di là dell’Edipo freudiano, potremmo rintracciare in quel caso i primi segni dell’importanza che Lacan ha constatato avere il così detto “ravage” materno, e l’incidenza del pre-edipo sulla diagnosi strutturalista. Aggiungo alcune osservazioni e citazioni che trovarono spazio nel giorno della riunione di Giugno. La Dott.ssa Frencesconi nota in “Introduzione alla psicoanalisi contemporanea”, nel suo saggio sulla femminilità, come sia sempre il fallo materno che la donna desidera ritrovare, in quanto richiama l’onnipotenza materna immaginariamente supposta nella fase di simbiosi, di fusione, nel fare uno con la madre, con il corpo materno. Dietro quindi al fallo paterno, edipico, rivendicato, che una analizzante porta in sogni e sintomi, si nasconderebbe in realtà quello materno immaginario, pre-edipico. Mi interrogai anche su quali fossero stati i limiti di Freud nella sua elaborazione della femminilità, ed indicai i due seguenti: l’aver intravisto un godimento oltre il fallo (anche sul versante anatomica della vagina), ma senza mai staccarsi dall’anatomia, restando invischiato nel gioco di Avere o Essere il fallo (come ritorna anche negli appunti finali pubblicati come “Risultati, idee, problemi”); godimento questo che invece Lacan analizzerà (nel seminario XX). Quindi il primo limite si può considerare il fallocentrismo da cui Freud non prescinde mai nell’analisi anche del superamento dello stesso. Secondo limite (a mio avviso) quello di non aver posto l’attenzione che avrebbe meritato alla questione del masochismo femminile che Freud comprende avere origine autonoma e differente rispetto al corrispettivo maschile, ma che non approfondirà mai, lasciando carta bianca su una questione in grado di offrire importanti novità teoriche e cliniche.

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