Con alcuni amici Giulietta e Giorgio festeggiano l’anniversario del matrimonio. Ma il loro legame non è più saldo. Giorgio cela, dietro una cortesia distratta, l’illusione di un nuovo amore. Giulietta ne ha la dolorosa convinzione e sente tutto il suo mondo entrare in crisi. Spera tacitamente in un soccorso preternaturale partecipando a sedute spiritiche e interrogando un veggente indiano; non riuscirà ad avere più nitida la sensazione del suo smarrimento. Il consiglio della imperturbabile madre la porta ad un ulteriore esperienza, particolarmente umiliante: Giorgio è seguito, spiato da investigatori che forniscono a Giulietta le prove irrefutabili del tradimento. Nella sua ricerca d’uno sfogo, d’una reazione all’abbandono, Giulietta sta per cedere alle lusinghe d’una vicina, Susy, che vorrebbe introdurla in un mondo vizioso e falsamente brillante. In tempo, con terrore, la donna se ne ritrae e, dopo aver tentato inutilmente di parlare con l’amante del marito, Giulietta troverà la forza di lasciarlo partire, nascondendogli la sua consapevolezza. L’umile accettazione dell’abbandono e l’irrazionale ma prepotente speranza nella vita, le daranno la forza di scacciare lontano dal proprio animo tutta la congerie di incubi, di angosciosi ricordi, di spettri che l’hanno ossessionata.
GENERE: Drammatico
REGIA: Federico Fellini
SCENEGGIATURA: Federico Fellini, Tullio Pinelli, Ennio Flaiano, Brunello Rondi
ATTORI:
Giulietta Masina, Sandra Milo, Mario Pisu, Sylva Koscina, Valentina Cortese, José Luis de Villalonga, Valeska Gert, Friedrich von Ledebur, Lou Gilbert, Caterina Boratto, Luisa Della Noce, Silvana Jachino, Milena Vukotic, Fred Williams, Anne Francine, Elena Fondra, Genius, Alberto Plebani, Mario Conocchia, Felice Fulchignoni
Ruoli ed Interpreti
FOTOGRAFIA: Gianni Di Venanzo, Pasqualino De Santis
MONTAGGIO: Ruggero Mastroianni
MUSICHE: Nino Rota
PRODUZIONE: ANGELO RIZZOLI PER FEDERIZ (ROMA), FRANCORIZ (PARIGI)
DISTRIBUZIONE: CINERIZ – DOMOVIDEO, MONDADORI VIDEO, MULTIGRAM
PAESE: Italia 1964
DURATA: 120 Min
FORMATO: Colore PANORAMICA, TECHNICOLOR
SOGGETTO:
da un’idea di Federico Fellini
“La vena del film è barocca, ridondante, perfino congestionata: in alcuni parti, come nella festa di Susy, ci induce addirittura un vago senso di nausea. E’ facile ammirare la continua ricarica delle invenzioni, la capacità di creare un universo assurdo (…). E’ altrettanto facile rilevare, a tratti, una certa opacità che prende sopravvento (…). Il sentimento di chi a metà di un viaggio perde fiducia nel raggiungimento della meta”. (Tullio Kezich, “Panorama”, 30 ottobre 1965).”Una bellezza turgida e un po’ ambigua, un sovrabbondare di immagini corposamente deliranti, un riverbero di manichini, spiriti, donne impennacchiate, bimbi; con le inquadrature mirabilmente affastellate di corpi e d’ombre. Fellini, liberato ormai dalle preoccupazioni ironico-realistiche degli esordi, si abbandona qui del tutto ai suoi istinti più profondi, che la maturità ha rivelato senza più inibizioni, così come gli spiriti rivelano a Giulietta ‘liberata’ le sue paure, i suoi fragili legami che un tempo le parevano così importanti, decisivi. Ecco il senso panico della natura in Fellini, la sua visione del mondo ironico-paganeggiante. Il suo amore per il gioco incontrollabile della memoria perduto verso le caligini magiche dell’infanzia, inteso tuttavia ad una religiosità disarmata e disponibile”. (Claudio G. Fava, “Le camere di Lafayette” in “La Rassegna Editrice”, Roma, 1974).”Non c’è da stupirsi se la povertà e il manicheismo di questa mitologia si gonfiano e dilatano in turgore liberty, dissipazione floreale, contaminazione viziosa di immagini oniriche, gusto incontrollato della deformazione che neutralizza e annulla la cattiveria dell’osservazione critica della società e del costume. Così, questo compiacimento (del resto così educato e accattivante!) dell’abnorme e del mostruoso (che, malgrado i tanti discorsi su un colore che ha ben poco d’inconsueto e di peregrino, non aggiunge nulla a quanto Fellini aveva già detto ne ‘La dolce vita’ e in ‘8 ½’) si compone, è vero, come qualcuno ha scritto, in una sorta di ‘catalogo illustrato dell’universo felliniano’, ma un catalogo, si deve aggiungere, tirato a lucido con gelida impeccabilità, dove la stessa immaginazione del regista, in altre occasioni fluida e mobilissima sembra raggrumarsi e ristagnare.Per tale via, comunque, nessuna liberazione è possibile. Quando nel finale Giulietta disubbidisce per la prima volta alla madre e apre quella porta dietro la quale c’è la bambina di sempre, legata sulla graticola delle suore o schiacciata dalle ossessioni e dagli inganni del matriarcato, del matrimonio e del sesso, e si attua per una via tutta irriflessa e stupefatta la «rimozione» dei complessi, lo spettatore avverte che il regista declama una liberazione che non è stata sofferta e non cresciuta nel personaggio, ma sempre al di fuori, in un universo astratto e mitizzato.” (Aurelio Ferrero, “Mondo Nuovo”, 14 novembre 1965).”Un film importante, soprattutto per il fatto che, anche figurativamente, è tutto visto dall’occhio deformante della sua protagonista, un film in cui il colore, studiato in ogni sfumatura e in ogni significato, ci ha proposto quanto di meglio il cinema ci aveva forse mai dato in questo campo, ma un film con troppi simboli, con troppa psicanalisi e, soprattutto da un punto di vista stilistico, troppo sopraffatto in più momenti dai temi e dai vizi che intendeva criticare. E la vera Giulietta? Incaricata di dare al suo personaggio la sola misura ‘reale’ del film, Giulietta Masina si è tenuta ad una recitazione sobria e interiore, quieta e tranquilla, volutamente lontana da ogni ‘effetto’; Mario Pisu è stato, con la dovuta fatuità, il marito tutto bugie e sotterfugi, Sandra Milo ha colorito, con sensuale malizia, tutte le raffigurazioni della voluttà che è stata chiamata a incarnare. Caterina Boratto è la madre bella e smaltata, Sylva Koscina la sorella frivola e vaporosa, Luisa Della Noce quella autoritaria; Valentina Cortese è l’intellettuale sofisticata: tutta sapienti miago
Se l’arte è fondamentalmente una questione di scelta, di misura, di armonia, questo film di Federico Fellini mi pare ci sia più virtuosismo, provocazione o “pasticcio” che arte autentica. GIULIETTA DEGLI SPIRITI ha avuto la sua anteprima assoluta non già a Venezia come a suo tempo si sperava, o a Rimini come si favoleggiava, bensì a Roma davanti a trecento scrittori riuniti in occasione del convegno della loro “comunità europea”. E’ toccato al poeta sovietico Tvardovski rompere il ghiaccio, sciogliere la riserva e forse infrangere la consegna: comunque è lui che, el quadro di un discorso sulla vera avanguardia che si teneva in quei giorni, ha espresso sulla attesissima opera un’opinione press’a poco analoga a quella da me appena riferita. Ed è un’opinione, purtroppo, sostanzialmente esatta, anche se forse non ne condivido certe esemplificazioni e sfumature.
Naturalmente è sempre stata una caratteristica di Fellini, in particolare nelle sue opere precedenti a cominciare da LA DOLCE VITA, quella di avvincere e anche di frastornare lo spettatore con il gioco pirotecnico della sua fantasia suggestiva, spericolata e barocca. Ma in GIULIETTA DEGLI SPIRITI si verifica un fatto curioso, e cioè si scopre che la struttura del film, la linea del racconto sarebbero, in se stesse, ben più semplici e dirette che nell’affresco caleidoscopico della DOLCE VITA oppure nell’introspezione frastagliata (giudicata impervia dal pubblico normale) di OTTO E MEZZO. Dico di più: in GIULIETTA DEGLI SPIRITI l’autore presenta un tema, lo svolge e lo conduce a soluzione con una lucidità d’impianto superiore a quella delle opere precedenti. Anzi, se non fossimo in presenza di uno dei campioni dell’irrazionalismo contemporaneo e se l’aggettivo, applicato a Fellini, non suonasse veramente troppo inconsueto verrebbe voglia di asserire che il suo atteggiamento di fronte alla materia è, qui, ben altrimenti “razionale” del solito.
Infatti GIULIETTA DEGLI SPIRITI vuole essere un discorso, per certi aspetti quasi un pamphlet, sull’indipendenza della donna. Lo assicura lo stesso Fellini e non vi è, questa volta, motivo di dubitare delle sue parole…
“L’intento del film è di restituire alla donna una sua indipendenza vera, una sua indiscutibile e inalienabile dignità”.
Del resto Fellini si è sempre occupato del rapporto tra l’uomo e la donna, del problema della coppia, delle inibizioni e degli stridori dello stato matrimoniale. L’unione in atto, l’unione in prospettiva, o l’unione già disgregata come nell’enigmatico episodio di Steiner nella DOLCE VITA. E’ un tema su cui il regista si batte e ribatte, specie nei film interpretati da Giulietta Masina come LA STRADA e come LE NOTTI DI CABIRIA, in quanto proprio ilo confronto tra l’uno e l’altro sesso, condizionato o meno dal contratto matrimoniale, gli consente di portare il riflettore sui miti di estrazione cattolica e piccolo-borghese, che hanno sempre costituito i motivi dominanti della sua ispirazione.
Certo, molto cammino compiuto dall’autore divide oggi la Gelsomina de LA STRADA, sottoproletaria sensitiva e sacrificata (anche se riscattata poi da quel che Fellini chiama il “trasalimento di coscienza” del bruto Zampanò, folgorato dalla Grazia), da questa Giulietta borghese, sensitiva ancor come l’altra e anzi padrona di una propria dimensione magica, ma sistemata, colta e, nonostante il suo perdurante infantilismo, assunta nella cosidetta buona società Eppure prigioniera di quei miti, sui quali il regista della DOLCE VITA, di OTTO E MEZZO, e anche dell’episodio di aveva ben proiettato qualche luce.
Sono miti familiari, religiosi, sessuali, forze del bene e forze del male, complessi di frustrazione, la speranza di un principe azzurro, la paura di un’apocalisse (“gli invasori”), un’alternanza di candore infantile e di deviazioni erotiche, il bisognosi ricorrere a segni profetici o di immergersi in immagini antiche (come quella di un connetto gentile che fuggì con una ballerina, su una delle prime “macchine volanti”). Tutto ciò viene acutizzato e scatenato, in Giulietta, da un altro suo mito che è, per lei, il principale: quello del marito. Disprezzata, per la sua ineleganza, da madre e sorelle bellissime, incapace di legare con amici ed amiche appartenenti a un altro pianeta, donna senza figli, Giulietta vive, nel suo villino sereno, solo per colui che crede essere il suo uomo. E se le viene a mancare questa fiducia, questo unico punto d’appoggio, tutto minaccia di crollare.
Ora, di fronte a questo personaggio Fellini manifesta una posizione nuova: lo invita decisamente ad assumere consapevolezza e autocoscienza. Per lui la donna, la moglie, deve finalmente svezzarsi dai propri complessi di soggezione, districarsi entro la selva dei timori, dei sospetti, dei condizionamenti, far piazza pulita di essi e cercare solo in sé la propria salvezza, la vera serenità che solo l’indipendenza può dare.
Anche la signora molto borghese “arrivata”, proprio come la povera Gelsomina venduta e vagabonda, ha un marito che non la guarda e non l’ascolta, un uomo che lei ha adorato, mitizzato, e che non pensa minimamente a lei; è corretto e compìto, a differenza di Zampanò, ma la tradisce e si prepara a lasciarla. L’abbandono da parte di Giorgio è la cosa che essa teme di più, che le sconvolge i sentimenti e le provoca le allucinazioni. Ebbene, alla fine del film, quando essa rimane sola, ma tutti gli “spiriti” sono stati esorcizzati, Giulietta comincia a rivivere. Anzi, come dice Fellini, “la vera vita di Giulietta comincia quando esce dall’ombra di Giorgio”.
Si capirà dunque, a questo punto, perché l’impostazione tematica di GIULIETTA DEGLI SPIRITI mi sembra più razionale e avanzata rispetto a quella degli altri film. Non c’è nemmeno più il recupero dei miti che c’era alla fine di OTTO E MEZZO: al massimo c’è un buffetto di riconoscenza, in quanto spiriti buoni e spiriti cattivi sono egualmente serviti a Giulietta e alla sua liberazione. Senonché i miti, scacciati dalla porta, rientrano dalla finestra. Certo, nella danza conclusiva di OTTO E MEZZO il regista – che era anche, come personaggio, il protagonista del film – li “recuperava” letteralmente: in quella sorta di generico embrassons-nous, realtà e immaginazione, sogni e ricordi, virtù e vizi, presente e passato, allucinazioni e riflessioni, struttura e sovrastruttura tutto partecipava alla festa della vita, in quanto nulla poteva, secondo l’autore, esser negato e respinto dal suo crogiolo fantastico, al suo universo artistico. Però l’ambientazione assai autobiografica del film – il mondo del cinema – contribuiva a cementare i vari lati dell’esperienza soggettiva, a risolvere la crisi nel momento stesso in cui il regista sapeva raccogliere gli sparsi frammenti per farne un film.
Invece, in GIULIETTA DEGLI SPIRITI, gli “spiriti” hanno completa prevalenza su Giulietta, le allucinazioni sulla realtà. In altre parole, alla giustezza della tesi, alla sua maggiore “logica” in confronto agli slanci e ai tradimenti lirico-misticheggianti di un tempo, fa qui disgraziatamente riscontro una forma pletorica e ridondante, una forzatura e una gelidità dell’ispirazione. Il che conduce, nell’economia dell’opera, a un vero e proprio trionfo dei mostri sopra chi li vuole esorcizzare, a una rivincita, anzi a una vendetta dei miti contro la coscienza che intendeva respingerli.
Figurativamente, plasticamente, coloristicamente (dato che Fellini impiega il colore, questa volta), l’autore si trova ad essere irretito, diventa egli stesso schiavo e succube delle proprie immaginazioni. Non crea, come in OTTO E MEZZO, una dialettica tra la realtà e la favola, ma cancella la prima e lascia esplodere la seconda. Non riuscendo, evidentemente, a penetrare con l’onestà e la profondità che avrebbe voluto nel mondo di sensazioni della sua Giulietta, attribuisce a lei le sensazioni proprie, ossia carica il personaggio femminile della esasperata mitologia del Fellini più ossessionato, a poco a poco riducendo la “donna” a un simbolo evanescente e impreciso, quando non addirittura scostante, mentre disordinatamente e incessantemente fa grandeggiare i simboli mostruosi d’una “dolce vita” da salotto, ormai ridotta a un’emblematica puramente contemplativa e cupamente edonistica, svuotata di carica demistificatoria e satirica. Da ciò la prolissità dominante del film, che nemmeno la squisitezza di certe forme, o il fervore polemico di certi passaggi riescono purtroppo a scalfire.
NOTE:
– NASTRO D’ARGENTO PER MIGLIOR ATTRICE NON PROTAGONISTA (SANDRA MILO), PER LA MIGLIOR FOTOGRAFIA, SCENOGRAFIA E COSTUMI.- PREMIO DAVID DI DONATELLO 1966 A GIULIETTA MASINA COME MIGLIORE ATTRICE.
Fellini, del resto… cosa dire di più?
E visto che siamo in tema erotico… che ne pensi di Fellini e Manara? 😉
"Mi piace""Mi piace"