Il Delta di Venere

“Il Delta di Venere” di Anais Nin

Anais Nin – Il delta di Venere  

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È necessario fare due brevi premesse, prima di parlare di Anais Nin. La prima è che si tratta probabilmente di una delle più brave e talentuose scrittrici che siano mai esistite – e ho volutamente detto scrittrice, non solo “scrittrice erotica”. L’uso che sa fare delle parole, le invenzioni narrative, la prosa che sfiora la perfezione: leggere la Nin è un piacere, a prescindere da quello di cui parla.

La seconda, non meno importante, riguarda la necessità di sospendere temporaneamente qualunque tipo di giudizio morale durante la lettura dei suoi racconti: è indispensabile, perché in caso contrario gli argomenti da lei trattati con normalità e in parte leggerezza – tra cui l’incesto, la pedofilia, lo stupro, la violenza di gruppo – sarebbero impossibili da metabolizzare. Non è per niente facile, ma è necessario – altrimenti, concentrandosi sullo scandaloso, si rischia di perdere l’infinita bellezza di questi racconti. Il consiglio è quello di concentrarsi sul dipanarsi della storia e sul fatto che questi atti non siano altro che invenzioni narrative che le permettono di creare un racconto che sfiora il fantastico, sotto molti punti di vista. Va considerato, inoltre, che l’epoca in cui la Nin scriveva – se per molti versi era estremamente pudica e bigotta, paragonata a quella odierna – non considerava ancora quasi mai questi atti come “crimini contro la persona”, sia a livello morale che legale. Le contraddizioni del primo Novecento.

Il Delta di Venere è un libro che assorbe tutti e cinque i sensi – compreso il sesto, nel caso dovesse esistere. Un’esperienza è provare a leggerlo in un contesto pubblico, sui mezzi o in una sala d’aspetto piena di gente: a poco a poco, ci si rende conto che le voci degli altri e il rumore si affievoliscono senza possibilità di ritorno, si legge in una bolla d’aria isolata da tutto il resto, insonorizzata e insensibile alle suggestioni esterne. Recentemente è stato votato su una rivista inglese  come uno dei migliori libri per ottenere un “orgasmo cerebrale”: per quanto questi sondaggi siano sempre fini a se stessi, si tratta sicuramente di una prosa unica, diversissima anche da tutto il contesto erotico a cui siamo abituati.

Anais non si risparmia: già nel primo racconto, “L’avventuriero ungherese” (che dal titolo potrebbe sembrare il solito fogliettone erotico-romantico stile Harmony ante litteram), dispiega tutto il peggio di cui è capace, scavando nei meandri della perversione e della monomania di un uomo ossessionato dal sesso, al punto tale da distruggere la sua famiglia e la sua stessa vita. Sorprende, in questo caso come nel resto dei racconti, la totale assenza della dicotomia colpa-punizione: l’avventuriero non perde tutto poiché è stato perverso, ma solamente perché la vita è grottesca, ironica, ti fa lo sgambetto quando meno te l’aspetti. Ed è proprio il discorso dell’ironia, quasi più ancora del sesso, a essere il filo conduttore della prosa della Nin. Nel resto dei racconti si sussegono ricordi d’infanzia teneri e crudeli, tutte le possibili declinazioni della sessualità – sempre vissuta in modo giocoso, leggero – i turbamenti dell’animo, perversioni originali e inspiegabili, ma soprattutto una carrellata di personaggi difficili da dimenticare, splendidamente tratteggiati, particolari, diversi dal solito. Non c’è niente di banale, il sesso spunta nel racconto senza forzature, con fluidità, da una riga all’altra, intrecciandosi strettamente con i desideri del corpo e della mente, senza nessun tipo di condanna morale o di pudore.

Lo stesso, questi racconti sono elegantissimi e si farebbe davvero molta fatica a definirli “pornografici”, come diversi critici – e anche la stessa autrice, ironizzandoci sopra – in passato hanno fatto. Sono vere e proprie fiabe erotiche, piene di fantasia e di fantastico, di surreale e di meraviglioso. Una sorta di “realismo magico” declinato in versione erotica, dove niente è come sembra e tutto può succedere, in un gioco delle parti che spesso è più cerebrale che fisico, dove la libertà non consiste tanto nell’essere totalmente privi di inibizioni, ma nel riuscire a esprimere se stessi fino in fondo.

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