Cibo e sesso, utili alla specie, attivano circuiti del cervello capaci di “memorizzare” le azioni più gratificanti. Il problema è che abbiamo scoperto come superstimolare quelle aree (con alcool, fumo, azzardo…). Una superstimolazione che dà dipendenza.
C’è un burattinaio nascosto nel nostro cervello che muovendo immaginari fili elettrochimici ci motiva, ci fa desiderare, ci spinge all’azione sia quando questa è utile sia quando è sconsiderata o dannosa. Esercita una forza che, nei suoi effetti meno positivi, appare sempre più presente nella nostra società: lo mostrano le impennate dei grafici delle tossicodipendenze e gli ultimi dati sulle dipendenze da gioco d’azzardo (+40 per cento dal 2007 a oggi, con un milione di italiani gioco-dipendenti). Di questo diabolico manipolatore, il piacere, parla il saggio in libreria il 16 aprile (La bussola del piacere, Codice edizioni, pp. 232, euro 23), scritto da David Linden, neuroscienziato alla John Hopkins University di Baltimora, divulgatore e direttore del Journal of Neurophysiology.
In the The Accidental Mind (2007) Linden spiegava come il cervello umano non fosse un’entità omogenea, ma la somma di una serie di funzioni cerebrali evolutesi nel tempo per risolvere problemi diversi. Ora ci svela in che modo il piacere, da forza propulsiva per l’evoluzione umana, si sia trasformato in onda distruttiva. “Per centinaia di migliaia di anni il piacere è stato la voce con cui l’evoluzione ci segnalava cosa era utile per la sopravvivenza della specie: mangiare, accoppiarsi, uccidere una belva” dice Linden. “Una scarica di piacere significava: “Ehi, presta attenzione! Questa è una cosa importante, che sarà utile per la tua vita: ti conviene ricordarla”. Poi però abbiamo capito come superare la natura in furbizia, e abbiamo iniziato a procurarci il piacere su richiesta. Come con le sostanze stupefacenti”. E il piacere è diventato dipendenza.
“Oggi sappiamo che tutte le esperienze piacevoli attivano un’area precisa del cervello, chiamata area tegmentale ventrale. Le dipendenze corrispondono a cambiamenti duraturi nelle funzioni dei neuroni di quest’area. La cosa affascinante – e terribile al tempo stesso – è che questi cambiamenti sono identici a quelli che l’esperienza e l’apprendimento producono nei circuiti neurali legati alla memoria”. Insomma, la dipendenza è una specie di apprendimento. Favorito dalla rapidità con cui il piacere ci arriva. “Come mai, a parità di nicotina assimilata, fumare sigarette dà molta più dipendenza del masticare tabacco? Il fatto è che, quando assumiamo sostanze psicoattive come la nicotina, il cervello memorizza l’associazione tra l’azione e il piacere che ne segue” spiega Linden. “Più l’azione e il piacere sono vicini, più strettamente li associamo nella nostra memoria, così una certa azione ci risulta molto piacevole e ne subiamo la continua tentazione. Nel caso della sigaretta, passano quindici secondi tra una boccata di fumo e il piacere. Per chi mastica tabacco l’intervallo è più lungo. Questo è anche il motivo per cui l’eroina iniettata, che fa effetto in pochi secondi, dà più dipendenza dell’ingestione di oppio, che fa effetto dopo trenta minuti”.
Sarebbe però ingeneroso nei confronti del piacere associarlo al vizio: in realtà il modo in cui prova piacere è una delle caratteristiche peculiari dell’Homo sapiens. “Anche gli altri mammiferi e animali più antichi come lucertole e serpenti hanno un circuito del piacere nella corteccia prefrontale mediale, e persino animali antichissimi come i lombrichi, che non hanno un vero cervello, hanno comunque un piccolo insieme di nervi che usa la dopamina. A rendere unica la nostra specie è però il fatto che il nostro circuito del piacere si è connesso molto fittamente a parti più elevate del cervello, come le aree della memoria, della cognizione, e delle emozioni. L’effetto è che solo l’uomo può trovare piacevoli esperienze non correlate con la sopravvivenza della specie: solo noi possiamo provare piacere – tramite gli stessi neuroni che si attivano con le droghe o con l’orgasmo – per un’idea, o quando vediamo punito un comportamento antisociale, o quando facciamo beneficenza e condividiamo le nostre risorse, oppure ci asteniamo dal cibo o dal sesso, se ciò collima con le nostre convinzioni ideologiche o religiose”. E solo l’uomo è stato capace di ingegnerizzare il suo cibo in modo da super stimolare i circuiti neuronali del piacere.
“I cibi deliziosi di oggi sono fatti in modo da attivare il circuito del piacere fino al punto in cui ha la meglio sui segnali di sazietà che normalmente ci impedirebbero di sovralimentarci” spiega Linden. “I nostri antenati preistorici avevano una dieta per lo più vegetariana, con pochissimi grassi (solo il 10 per cento delle calorie totali) e pochi zuccheri. I sapori salati erano sconosciuti a chi non viveva sulle coste, e le carestie erano frequenti: così quando ci si imbatteva in cibi ad alto valore energetico il cervello ci spingeva, con lo stimolo del piacere, a mangiarli in abbondanza per mettere su una riserva di grasso per i tempi più duri. Bene, ancora oggi i grassi e i dolci causano un’attivazione maggiore nei circuiti cerebrali del piacere (in particolare la combinazione di zuccheri e grassi induce la scossa più intensa), ma è mutato l’ambiente: i cibi ad alta densità energetica sono sempre alla nostra portata e lo stesso meccanismo che una volta garantiva la sopravvivenza, ora garantisce l’obesità”. Verso la quale, ci ammonisce Linden, spesso si ha un approccio sbagliato.
“Si tende a colpevolizzare chi è obeso, come se il sovralimentarsi fosse una scelta del tutto cosciente. Invece la brama di piacere è soprattutto inconscia. Il nostro libero arbitrio ha un limite, e non tutti sperimentano i desideri e le motivazioni allo stesso modo: chi soffre di qualche dipendenza, come quella da cibo (ma il discorso vale anche per l’alcol o per il gioco), ha spesso differenze genetiche nel circuito dopaminico del piacere. Se hai una variante genica che fa sì che le sinapsi del tuo cervello siano meno efficienti nel trattare la dopamina, è più probabile che tu diventi dipendente da qualcosa. Se hai recettori della dopamina meno efficienti, dovrai infatti bere cinque bicchieri di whisky per provare lo stesso piacere che provo io con un solo bicchiere, e hai molto più rischio di diventare alcolizzato”.
A sostegno della radice genetica delle dipendenze ci sarebbero non solo le nuove scoperte (come il gene Bdnf, responsabile della “fame incontrollata”, individuato a marzo dai ricercatori della Georgetown University) ma anche l’evidenza che le dipendenze tendono a presentarsi insieme. “I malati di jackpot, per esempio, hanno più probabilità degli altri di essere anche alcol-dipendenti, fumo-dipendenti o cibo-dipendenti. Il modello scientificamente corretto per confrontarsi con chi soffre di questi problemi è quello della malattia da curare, non quello dell’atteggiamento da colpevolizzare”.
Una posizione su cui il ministro Balduzzi concorda: è del 21 marzo la notizia che la ludopatia sarà inserita nei Livelli essenziali di assistenza (Lea) per gestirne prevenzione, cura e riabilitazione proprio come si fa con una malattia. Linden è ottimista: “Ci si attende nei prossimi 15 anni una rivoluzione farmacologica nel trattamento delle dipendenze, un po’ come è accaduto in questo ventennio con gli antidepressivi. Già oggi abbiamo farmaci antidipendenza, per esempio per ridurre l’effetto della nicotina. Ma hanno troppi effetti collaterali”. Quelli che però di sicuro non vorranno essere guariti sono i malati d’amore. “La neuroscienziata Lucy Brown, dell’Albert Einstein College of Medicine di New York, ha mostrato che nei primi 18 mesi di una relazione di coppia, vedere il partner in fotografia attiva intensamente il circuito del piacere nel cervello” racconta Linden. “Dopo 20 anni di relazione, solo al 5 per cento degli accoppiati succede ancora”. Ma è tutt’altro che una disgrazia.