Dylan Marlais Thomas nasce nel 1914 a Swansea, in Galles, figlio di un professore di inglese della Grammar School locale, che Dylan frequenta dal 1925 al 1931.
Sin da giovanissimo manifesta una sorprendente inclinazione alla poesia e nel 1934 pubblica la prima raccolta di versi, diciotto poesie, che scuotono l’ambiente letterario londinese, sorprendendo critici e poeti già affermati. Nei suoi versi svela tutto quel mondo poetico che farà di lui un mito: la nascita, l’amore e la morte, la natura; un linguaggio magico, a volte oscuro, che fonde la tradizione dei bardi alla poesia visionaria inglese.
La leggenda lo vuole subito malato di asma, ladruncolo, le ossa rotte, il boccale di birra scura in mano, la sigaretta penzolante tra le labbra. Bello proprio no, se non nel fulgore fugace dei vent’anni, subito sfatto dalle sbronze e dalla vita dissipata. Bestia (a Londra, ubriaco perso, si mise a quattro zampe per fare il cane, morse un lampione e si ruppe un incisivo), angelo, folle, cucciolo (con l’aria spersa che suscitava in tutti, amici e amanti, il desiderio di proteggerlo da se stesso, di salvarlo) e pagliaccio. Il lirismo ermetico e la volgarità smargiassa da pub ne fanno un perenne ragazzo irredento, come il Galles da cui proveniva.
Tormentato, eccessivo, a tratti fraudolento (le poesie le scriveva come poteva, anche molto in fretta se il committente era disposto a pagare presto e bene), eppure sinceramente ossessionato dalla sua vocazione. Vero nelle sue esperienze, sia in quelle poche di felicità che nelle molte sconfitte.
Alla coetanea londinese Pamela Hansford Johnson, aspirante scrittrice che si congratula con lui per la sua prima pubblicazione, il ventenne Thomas confessa tutti i propri pensieri, desideri, dubbi e aspirazioni. Non si incontreranno che di lì ad un anno, ma Dylan già dichiara amore eterno e sparge lacrime amarissime quando, reduce da alcuni giorni di bisboccia e dalla conoscenza biblica con una “pervicace seduttrice”, confessa la fuggevole relazione e rinnova tra i sensi di colpa le sue buone intenzioni di fedeltà.
Al cucciolo ferito nulla si può negare. Ben lo sanno i suoi molti benefattori londinesi: artisti, editori, storici famosi, persino qualche omosessuale, ma soprattutto strambe signore dell’intellighenzia altoborghese. Per la decana Edith Sitwell, eccentrica e potente poetessa dei circoli culturali inglesi, un Thomas squattrinato che ha da poco passato la soglia dei trent’anni spende parole d’elogio e di leziosa galanteria come il più consumato dei gigolò. Dalla “folle” Margaret Taylor, che di lui si prese cura nei giorni della fine, ottiene l’ambita Boat House di Laugharne; all’amante americana Liz Reitell ispira pietà descrivendosi, col suo misto irresistibile di teatro sfacciato e candida ironia, mendicante alcolizzato che striscia per i vicoli perduti della metropoli. Sono queste le lettere più divertenti e leggere. Veri e godibilissimi esercizi di funambolismo retorico, quando, prossimo alla morte, Thomas sente la sua fiamma spegnersi e la “falange di immagini” che costituisce il nucleo pulsante della sua tecnica poetica allontanarsi inesorabilmente.
Proprio la raccolta delle lettere di Dylan ci illustrano la sua vita privata e il mondo visto con gli occhi di un ubriaco di vita prima che di alcol. Raccontano la sua innocenza molesta, “un’innocenza che proteggeva bevendo”, dice una testimone dell’epoca. Il suo bisogno disperato di sesso e di desiderio. L’arguzia, l’istrionismo. La passione iperbolica, la disperazione e l’abile commedia con cui portava in scena questo e altro.
Ma il redde rationem spetta alla moglie Caitlin, compagna di tutta una vita (i due si sposano poco più che ventenni nel 1937) e sua nemesi personale. Caitlin è una ballerina energica e sfrontata che non si lascia intimidire dagli sguardi languidi e dalle belle parole. Con lui resiste fino all’ultimo passando attraverso la grande miseria degli anni di guerra, ingaggiando potenti gare di bevute e dando vita a scintillanti battaglie cariche di sospetti, gelosie, violenze reciproche e altrettanto appassionate riappacificazioni. A lei Thomas dedica parole roventi di odio e passione. A lei confessa l’inconfessabile consegnandola al paradiso immaginario dell’amore perfetto, simbiotico, speculare. E’ il suo alter ego. Splendida, brutale e cialtrona esattamente come lui. Ma è anche il suo “mondo incantato”, l’abbraccio tiepido che svapora nel ricordo dell’infanzia e del natio Galles.
A lei racconta le speranze del sogno americano, l’elettrizzante scoperta di un pubblico adorante nel ciclo di conferenze che all’inizio degli anni Cinquanta lo vedono impegnato nelle maggiori università degli Stati Uniti. Stordito da una consacrazione che in patria stentava ad arrivare, Thomas si lascia assorbire dal glamour della vita d’oltreoceano e affresca vividi ritratti dei “canyon di New York”, delle “case lussuose di Washington”, delle “meraviglie di San Francisco”, dell'”inferno provinciale di Vancouver”.
Affascina folle di studenti e semplici lettori, guadagna bene e spende di più bevendo. L’ultima lettera alla moglie è del 1953: Stravinskij li attende ad Hollywood per l’estate. Scriveranno un libretto d’opera; il grande direttore sta facendo costruire uno studio apposta per loro in giardino. Saranno per sempre ricchi e famosi. Il progetto slitta all’autunno. Quel novembre Thomas, in preda all’ennesimo delirio alcolico e alla dose spropositata di morfina che un medico spicciativo gli inietta nel probabile intento di toglierselo di torno, muore in un ospedale di New York nel 1953.
Sempre eccentrico, sempre così contraddittorio… ma la poesia che compone è sempre qualcosa di più…
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