Auguri Donna

Cara donna,
Ti auguro di credere
sempre
nei tuoi sogni
perché senza
saresti vuota.
Ti auguro di non tradire mai te stessa, perché lontana dalla tua verità
l’esistenza perde
di senso.
Ti auguro di credere,
sempre nell’amore
perché se dici “basta” dentro di te
qualcosa
muore.
Ti auguro di continuare
a ridere, ballare,
saltare, cantare,
anche se
non ce n’è motivo,
anche se
le giornate sono piene
di problemi,
perché senza la gioia,
la vita, diventa piatta
e grigia.
Ti auguro di lasciare
spazio nel tuo cuore
per il perdono,
perché senza di esso
si trasforma in pietra.
Ti auguro di mantenere sempre la porta aperta
alla passione
per vivere con intensità
ogni più piccola cosa.
Ti auguro di portare sempre con te il rispetto
perché senza di esso
è facile calpestare
chi ci è vicino.
Ti auguro di amare gli altri ma di non dimenticarti che anche tu meriti amore.
Ti auguro di essere
sempre te stessa,
di seguire la voce
della tua anima,
perché lontana da essa
la vita perde colore.

Simona Oberhammer

L’amore trasformato di Dante: riflessioni sull’amore del poeta per Beatrice

Se la “Vita Nuova” fosse stata l’unica opera importante che Dante avesse realizzato, solo quest’opera gli avrebbe guadagnato la reputazione di grande poeta della civiltà occidentale.

È noto che Dante è uno dei più grandi poeti della civiltà occidentale. La sua opera magnum, La Divina Commedia , è considerata uno dei coronamenti dell’umanità, un capolavoro che ci rivela qualcosa di significativo sulla natura della realtà e su cosa significhi essere umani. Per riproporre le parole di Roger Kimball, la scrittura di Dante è “il frutto di una padronanza sicura, come La Tempesta o l’op. 135 quartetto”. [1] La sua scrittura contiene quel tipo di bellezza seducente che ci porta fuori da questo mondo per guardare, come fece lo stesso Dante, nei cieli più alti. In un’epoca in cui i grandi uomini e donne del passato sono spesso dimenticati, possiamo dire con gioia che Dante è ancora, secoli dopo, una delle luci brillanti dell’Occidente.

Generalmente ricordato per il suo viaggio nel cosmo spirituale, oggi è meno noto che Dante sia l’autore di una grande storia d’amore. La storia di cui parlo è quella tra Beatrice e lo stesso Dante come è raccontata nella Vita Nuova e nella Divina Commedia . Pertanto, è su questa storia d’amore che vorrei rivolgere la nostra attenzione. Mentre racconto questa storia, sarà evidente che possiamo ancora imparare molto da essa, specialmente sulla natura dell’amore e sulla capacità che ha di portare grazia. L’intuizione di Dante sulla natura dell’amore è particolarmente necessaria oggi, decenni dopo l’assalto della Rivoluzione Sessuale che rifiutò la concezione cristiana dell’amore.

La visione: Dante e Beatrice, 1846 da Ary Scheffer

***

Nella Vita Nuova , Dante raccontò la storia della sua ammirazione per una fiorentina di nome Beatrice. Quando la vide per la prima volta all’età di nove anni, Dante si innamorò e rimase innamorato per il resto della sua vita. Anni dopo, Beatrice morì alla giovane età di ventiquattro anni e Dante cadde in una profonda tristezza. Volendo immortalare l’amore della sua vita, Dante compose 31 poesie e commenti circostanti in memoria di Beatrice. Alternando prosa e versi, Dante scrisse sulla scia di Boezio, uno dei suoi eroi intellettuali e autore di uno dei suoi libri preferiti, La consolazione della filosofia . [2] Se la Vita Nuova fosse stata l’unica opera importante che Dante avesse realizzato, quest’opera da sola gli avrebbe guadagnato la reputazione di grande poeta della civiltà occidentale.

Nella Vita Nuova , Dante ha preso in prestito cautamente dal concetto medievale di amore cortese per esprimere la sua ammirazione per Beatrice. Come sottolinea Mitchell Kalpakgian, il concetto di amore cortese si discostava in molti modi dalla saggezza perenne che si trova nei grandi libri della civiltà occidentale e negli insegnamenti della Chiesa. Per molti versi, era un concetto non tradizionale e radicale. Kalpakgian sottolinea che l’amore cortese medievale vedeva il matrimonio come qualcosa di non romantico, un arrangiamento antiquato e noioso che manca della mistica della passione erotica. L’amore cortese avrebbe spesso trovato il suo compimento in relazioni proibite e adultere come raffigurate nel romanzo di Lancillotto e Ginevra. In questo modo ha sfidato gli insegnamenti cristiani sull’amore e sul matrimonio. [3]

Riconoscendo questo pienamente bene, Dante è stato attento nel modo in cui ha usato il concetto per raccontare la storia del suo amore per Beatrice. Ha usato il concetto solo nella misura in cui serviva ai suoi scopi di poeta, ed è stato attento a prendere le distanze dagli aspetti più problematici di questa tradizione letteraria. Tra le pagine della Vita Nuova , ha suggerito che l’amore è accaduto senza che lui nemmeno se lo aspettasse. [4] Per riprendere l’ormai popolare frase, si innamorò al primo sguardo, ed è questo amore che orienta i suoi sforzi di poeta. L’influenza della tradizione amorosa cortese su La Vita Nuova  di Dante a questo proposito è evidente.

Tuttavia, anche durante i suoi primi anni come scrittore, Dante evitò gli estremi dell’amore cortese. In particolare, Dante ha sottolineato di avere ancora, anche in mezzo al suo amore appassionato per Beatrice, il faro della ragione umana a sua disposizione. Non permettendo ai suoi appetiti di sopraffare la sua ragione, Dante seppe agire secondo la legge morale. In questo modo, l’amore di Dante nella Vita Nuova  non era di natura fisica o adultera. Il suo amore era appassionato e poetico, certo, ma non era schiavo dell’appetito sessuale. Dante ha chiarito che gli aspetti non tradizionali e immorali dell’amore cortese – passione, segretezza e adulterio – non avevano posto nel suo amore per Beatrice. Chiarì che “non ha mai permesso all’Amore di governarlo” senza il “fedele consiglio della ragione”. [5]Di conseguenza, Dante riteneva che le facoltà dell’anima dovessero essere in giusto allineamento con la ragione che governa sempre il desiderio. [6]

Da fedele cattolico e difensore della perenne saggezza della tradizione occidentale, Dante sapeva che il vero amore è qualcosa di moralmente elevato. Non è qualcosa che travolge la ragione. L’amore non ci distrugge né ci rende infelici, come spesso affermavano gli amanti cortesi. Non c’è da meravigliarsi se Robert Hollander suggerisce che l’amore di Dante per Beatrice può anche essere inteso come “legato alla presenza fisica e noumenica di Cristo”. [7] In questo modo, le poesie che si trovano nella Vita Nuova  trasmettono un amore per Beatrice che aiuta Dante a trovare Cristo in una “vita nuova”. Anche il nome del poema richiama alla mente la frequente insistenza di san Paolo sulla nostra conversione da una vecchia vita a una nuova. [8] L’amore, in fondo, ci chiama alla conversione.

Alla fine, nel bel mezzo della realizzazione della Vita Nuova , Dante smise bruscamente di scrivere. Dopo aver registrato una visione di Beatrice in cielo, Dante si rese conto che la sua poesia non era all’altezza del tipo di lode che Beatrice meritava. E non c’è da stupirsi perché. Se Dante amava davvero Beatrice come sosteneva, allora l’uso di un genere letterario non tradizionale e discutibile per trasmettere questo amore non sarebbe sicuramente all’altezza. Fu in questo momento che Dante decise di non scrivere più della sua “beata signora” finché non avesse potuto farlo con maggiore abilità. Dante ha quindi concluso la Vita Nuova come segue:

“Dopo aver scritto questo sonetto mi apparve una visione meravigliosa, nella quale vidi cose che mi fecero decidere di non dire più nulla di questa beata signora finché non fui capace di scriverne più degnamente. Per raggiungere questo obiettivo, sto facendo tutto il possibile, come sicuramente lei sa. Sicché, se piace a colui che è ciò per cui tutte le cose vivono, e se la mia vita è abbastanza lunga, spero di dire di lei cose che non si sono mai dette di nessuna donna.

Allora, se è gradito a Colui che è il Signore della benevolenza e della grazia, l’anima mia vada a contemplare la gloria della sua signora, quella beata Beatrice, che guarda in gloria il suo volto qui est per omnia secula benedictus . [9]

Il racconto della storia d’amore tra Dante e Beatrice finì momentaneamente, ma alla fine avrebbe raggiunto il suo culmine anni dopo nella  Divina Commedia .

***

Nel Canto V dell’Inferno , Dante fa qualcosa di importante con i personaggi Francesca e Paulo. Questo canto può essere interpretato come un allontanarsi dai peggiori eccessi dell’amore cortese o come mettere in discussione l’efficacia dell’intero genere letterario. Ad ogni modo, però, vediamo una trasformazione da cortese a sacro nel modo in cui Dante descrive la sua ammirazione per Beatrice. A questo punto dell’Inferno , si narra che Francesca e Paulo caddero in una lussuria peccaminosa dopo aver letto la cortese storia d’amore di Sir Lancillotto. Con le lacrime che le scendono dagli occhi, Francesca racconta al pellegrino Dante come è caduta nel peccato:

“Un giorno leggiamo, per passare il tempo,

di Lancillotto, di come ci siamo innamorati;

eravamo soli, innocenti di sospetti.

Di volta in volta i nostri occhi si univano

dal libro che leggiamo; i nostri volti arrossirono e impallidirono.

Al momento di una sola riga abbiamo ceduto:

è stato quando abbiamo letto di quelle labbra tanto agognate

ora baciato da un amante così famoso,

che questo (che non lascerà mai il mio fianco)

poi mi baciò la bocca e tremò come lui». [10]

In accordo con l’amore cortese, Francesca descrive l’amore come una forza compulsiva a cui non si può resistere. Dante, in una certa misura, potrebbe essere d’accordo, come è evidente dal suo precoce impegno per la tradizione letteraria dell’amore cortese. Tuttavia, Dante non suggerirebbe quindi che, di conseguenza, sia accettabile che una persona consenta alla passione dell’amore di superare la ragione. Dopotutto, una tempesta di appetiti lussuriosi non può essere propriamente chiamata amore. Canto V dell’Inferno ci insegna che l’amore può essere appassionato, ma deve essere conforme alla retta ragione e alla moralità. Non può indurci, come fecero Francesca e Paulo, in atti lussuriosi e immorali. Il vero amore non ci fa vorticare su e giù, avanti e indietro, in una violenta tempesta di passione. L’amore non può essere separato dalla verità. Contrariamente a Francesca e ai suoi numerosi seguaci nel mondo post Rivoluzione sessuale, il vero amore non è lussurioso. La nostra attuale cultura del collegamento farebbe bene a prenderne nota.

Il potere moralmente elevato dell’amore è veicolato da Dante alla fine del Purgatorio  e per tutto il Paradiso. Si può forse dire che l’amore dantesco presentato nella Vita Nuova  si trasforma in qualcosa di più alto e puro nella Divina Commedia . L’amore di Dante assume una natura così piena di grazia e moralmente elevante che solo un’immaginazione completamente cristiana può catturarlo. Un amore che prima era descritto in modo cortese ora, dopo anni di crescita come scrittore, viene descritto in modo sacro. Il suo amore è così grande che ci volle l’intera teologia cristiana dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso per catturarlo. Hans Urs von Balthasar sottolinea questo punto:

«È vero che la figura dell’amato è arricchita di contenuti simbolici, ma sarebbe ridicolo sostenere che essa sia solo un simbolo o un’allegoria, di cosa? di fede? di teologia? della visione di Dio? Solo accademici polverosi potrebbero innamorarsi di qualcosa di così astruso. No, la figura dell’amato è una giovane fiorentina in carne e ossa. Perché un uomo cristiano non dovrebbe amare una donna per l’eternità e lasciarsi introdurre da quella donna a una piena comprensione di cosa significhi ‘eternità’? E perché dovrebbe essere così straordinario – non bisogna piuttosto aspettarselo – che un tale amore abbia bisogno, per il suo totale compimento, di tutta la teologia e del Paradiso, del Purgatorio e dell’Inferno?». [11]

Non c’è da stupirsi che l’ingresso di Beatrice sia il culmine del Purgatorio . Beatrice, infatti, gioca un ruolo fondamentale nella trama complessiva della Divina Commedia . Quando il pellegrino Dante si ritrova perso in un bosco oscuro, è Beatrice che si avvicina a Virgilio e gli chiede di ricondurre Dante in salvo. Colpito dalla sua bellezza, Virgilio fa esattamente come gli è stato comandato. Poco dopo, quando Virgilio ha condotto Dante fin dove può, svanisce e Beatrice diventa la nuova guida.

Inoltre, durante l’intero viaggio, è in diversi momenti il ​​suo amore per Beatrice che lo incoraggia ad andare avanti. Quando Dante discende nella miserabile e orribile oscurità dell’Inferno, lo fa perché è necessario un viaggio verso il basso per librarsi in alto con Beatrice in Paradiso. Deve fare la sua discesa per poter rivedere Beatrice, poiché l’amore è indissolubilmente legato alla sofferenza e al sacrificio. Ci richiede, a volte, di andare dove non vogliamo. Poco dopo, quando Dante sta soffrendo sul monte Purgatorio, lo fa nella speranza di rivedere Beatrice.

Come la donna che Dante amava nella vita reale, Beatrice è raffigurata come rappresentante della rivelazione cristiana. È sia una vera donna che un simbolo, ed è un simbolo efficace solo perché era una vera donna. È come se Beatrice, l’amore della sua vita, aiutasse a rivelargli Dio. È come se lei gli mostrasse uno scorcio di eternità quando era viva, e di conseguenza lei è la sua guida attraverso l’eternità per tutta la poesia. Per tutto il Paradiso , dunque, Dante deve solo guardare Beatrice per ascendere più vicino a Dio. Dante guarda Beatrice, e Beatrice guarda il più alto dei cieli. Dante vede quindi riflesso negli occhi di Beatrice, come negli specchi, il cielo più alto sopra entrambi. [12]

***

Mentre continuiamo a riconoscere la grandezza di Dante e della sua Divina Commedia, forse possiamo aggiungere questa storia d’amore a uno dei motivi della sua grandezza e attualità duratura oggi. Ai suoi tempi, Dante è stato in grado di respingere il peggio della cultura che lo circondava: gli eccessi dell’amore cortese. Allo stesso tempo, seppe attingere con grande maestria dalla saggezza della tradizione occidentale e dagli insegnamenti della Chiesa sulla natura dell’amore. In questo modo, Dante si preoccupava dei modi in cui il suo patrimonio culturale poteva essere conservato e rinnovato. Possiamo anche noi respingere i peggiori eccessi della nostra cultura post-rivoluzione sessuale che ha trasformato il matrimonio in un mero contratto e il sesso in una mera attività consensuale. Infine, possiamo riscoprire e preservare con Dante il tipo di amore che avvicina una persona a Dio, il tipo che richiede l’intera teologia dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso per essere totalmente trasmessa.

 

Bibliografia:

[1] Queste parole sono state usate accuratamente per descrivere Josef Pieper, ma sono anche abbastanza applicabili a Dante. Per il contesto, vedere Roger Kimball, “Josef Pieper: Leisure and its Discontents”, The New Criterion 17, n. 5 (gennaio 1999), 23-24.

[2] Dante, Convivio II , Trans. Richard Lansing (Garland, Texas: Garland Library, 1990), capitoli 11-12.

[3] Mitchell Kalpakgian, “Chaucer and the Heresy of Courtly Love”, The Imaginative Conservative  (15 agosto 2018), online.

[4] Per leggere la Vita Nuova , vai alla biblioteca online Digital Dante tramite la Columbia University. Cfr. Dante Alighieri, Vitta Nuova , tradotto da Andrew Frisardi (Evanston: Northwestern UP, 2012), online.

[5] Ibid.

[6] Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea  I, 13. Aristotele era il filosofo preferito di Dante.

[7] Robert Hollander, “Dante: A Party of One”, First Things (aprile 1999), online.

[8] Ibid.

[9] Dante, La Vita Nuova , in linea.

[10] Dante Alighieri,  La Divina Commedia: Inferno , trad. Mark Musa (repr. New York: Penguin Books, 1971), V 127-136.

[11] Hans Urs von Balthasar, La gloria del Signore: un’estetica teologica, Volume III: Stili laici , trad. Andrew Louth, John Saward, Martin Simon e Rowan Williams (San Francisco: Ignatius Press, 1986), 31-32.

[12] Baldassarre, GL, 63-64. Per un esempio, vedi Dante, Alighieri, La Divina Commedia: Paradiso , trad. Mark Musa (repr. New York: Penguin Books, 1971), I 64-71.

Antico Testamento – Audiolibro – Cantico dei Cantici

L’amore -Thich Nhat Hanh

Il vero amore contiene l’elemento della gentilezza amorevole, che è la capacità di offrire felicità. Per rendere felice una persona bisogna esserci. Si dovrebbeimparare a guardarla, a parlarle. Rendere un’ altra persona felice è un’arte che si impara.
Il secondo elemento che compone il vero amore è la compassione, la capacità di togliere il dolore, di trasformarlo nella persona che amiamo. Anche in questo caso bisogna praticare il guardare in profondità per riuscire a vedere che tipo di sofferenza ha in sè quella persona. Spesso avviene che l’altra persona, compresa e sostenuta, sarà in grado di affrontare più facilmente le difficoltà della sua vita, perché sentirà che siete dalla sua parte.
Il terzo elemento è la gioia. Il vero amore vi deve portare gioia e felicità, non sofferenza giorno dopo giorno. Il quarto e ultimo elemento è la libertà. Se amando sentite di perdere la vostra libertà, di non avere più spazio per muovervi, quello non è vero amore.

Thich Nhat Hanh

Il cammino verso una società egualitaria: principi di politica matriarcale

di Heide Goettner-Abendroth

Nel corso degli ultimi trent’anni ho dedicato i miei studi  alle società matriarcali  del passato e a quelle ancora oggi esistenti. I moderni studi matriarcali non sono un campo marginale del pensiero, una ricerca esotica, sono esattamente l’opposto. Sono studi che riportano alla luce un importante corpo di conoscenze che riguarda i modelli culturali, politici, sociali ed economici non patriarcali – sostanzialmente egualitari –  che in questa ultima fase globalmente distruttiva del patriarcato è urgente prendere in considerazione

I matriarcati che sono esistiti nella storia, e quelli che ancora oggi esistono, non sono società a dominio femminile – concezione diffusa ma errata – si tratta, semmai,  di società che hanno cercato di rimanere in vita lungo i millenni, senza gerarchie né dominazioni, e senza far uso di giochi di guerra. Vale a dire, senza costituire eserciti per l’uccisione organizzata. In queste società la violenza contro le donne e i bambini è virtualmente sconosciuta, laddove le società patriarcali di tutto il mondo ne sono travolte.

Queste realtà e questi modi di vedere mi hanno incoraggiata a continuare il mio lavoro nel corso di questi decenni, nonostante l’ostilità che mi è stata costantemente riservata. Gli esiti di questa ricerca mi hanno portata a considerare  la cultura dei modelli matriarcali come un corpo di conoscenze assolutamente importante per noi oggi e per il nostro futuro.

I matriarcati non sono utopistici. Sono stati presenti nella nostra storia per lunghi periodi e continuano a esserlo tuttora, imprese concrete e imprescindibili, che appartengono alla conoscenza culturale dell’umanità. Queste società prevedono delle precise modalità pratiche  di organizzare la vita secondo i bisogni delle persone.   Sono metodi non violenti, pacifici e, in una parola, umani. Si tratta di principi organizzativi che non hanno nulla di ingenuo o di banalmente “naturale”, ma che rappresentano una precisa e consapevole creazione culturale. Per chiarire meglio, farò una breve introduzione ai modelli matriarcali di organizzazione da un punto di vista  economico, sociale, politico, spirituale e culturale.

Il livello economico

Da un punto di vista economico, la maggior parte dei matriarcati tradizionali sono agrari, anche se non esclusivamente, e praticano un’economia di sussistenza finalizzata all’auto-sostentamento locale e regionale. Le terre e le case appartengono al clan – nel senso del diritto d’uso – , mentre “proprietà privata” e “diritti territoriali” sono concetti sconosciuti.

Esiste una circolazione di beni continua che segue le linee di parentela e le convenzioni matrimoniali. Questo sistema previene l’accumulo di beni da parte di un individuo o di un clan, poiché l’ideale è la distribuzione. I vantaggi e gli svantaggi che derivano dal processo di acquisizione dei beni sono tenuti in equilibrio da precise procedure sociali. Per esempio, i clan facoltosi sono obbligati a invitare l’intero villaggio ai festival stagionali, ridimensionando così la loro ricchezza. Grazie a  questa generosità, guadagneranno onore e considerazione sociale nel villaggio, il che  sarà loro d’aiuto nei tempi difficili.

In termini economici, i matriarcati sono noti  per la loro perfetta mutualità bilanciata. Li definisco perciò società a economia bilanciata, al contrario dei patriarcati che, attraverso la loro storia relativamente breve, hanno cercato sempre di concentrare i beni di tutti nelle mani di pochi. Sul piano economico, siamo giunti a un punto in cui non è più possibile aumentare la quantità di produzione industriale su larga scala, e inflazionare ulteriormente lo standard di vita occidentale senza correre il rischio di distruggere totalmente la biosfera terrestre.

Una delle possibili vie di uscita potrebbe essere una nuova economia di sussistenza (Claudia von Werholf, Maria Mies, Veronika Bennholdt-Thomsen) incentrata sull’economia del dono (Genevieve Vaughan), e fondata  su unità locali e regionali. Queste comunità richiamano la pratica del lavoro di sussistenza, che privilegia la qualità della vita rispetto alla quantità della produzione di beni. In molte economie di sussistenza tradizionali, le donne sono il principale supporto di queste strutture, che devono essere sostenute e aiutate a espandersi affinché il mercato globale non le distrugga. E’ per questo motivo che la regionalizzazione può essere uno strumento per l’economia matriarcale.

Il livello sociale

Da un punto di vista sociale le società matriarcali tradizionali sono basate sul clan. Le persone vivono insieme in ampi gruppi di parentela secondo il principio di matrilinearità, ossia la parentela in linea materna. Il nome del clan, gli onori sociali e i titoli politici vengono ereditati dalle madri. Un matriclan prevede, come minimo,  tre generazioni di donne, oltre gli uomini direttamente imparentati.

Un matriclan convive nella grande casa del clan dove possono abitare da 10 a 100 persone, a seconda del tipo di abitazione. Le donne vivono lì, stabilmente,  e le figlie e le nonne non abbandonano mai la casa materna, mentre  i loro sposi o amanti si fermano solo per la notte. E’ ciò che viene chiamato “visiting-marriage”. Questo tipo di organizzazione si chiama matrilocalità.

Il clan è un’unità economica autosufficiente. Per raggiungere una coesione sociale tra i clan del villaggio o della città vengono stipulati accordi matrimoniali molto complessi, che legano i clan tra loro in modo assai proficuo. Uno di questi è la convenzione del matrimonio mutuale tra due clan. Esiste, inoltre, la consuetudine di lasciare libera scelta in materia di matrimonio con altri clan.  L’intento che sottende questa usanza è che tutti gli abitanti di un villaggio o città siano in qualche modo imparentati. La relazionalità basata sulla parentela è sia un sostegno reciproco sia  un sistema di aiuto, che prevede  precisi diritti e doveri. Si forma così una società senza gerarchie, che si riconosce come un clan esteso. Definisco, perciò, i matriarcati società orizzontali, non gerarchiche, di  parentela matrilineare.

Le società patriarcali, al contrario, consistono di individui e gruppi spesso estranei fra loro. Si combattono gli uni gli altri per raggiungere il potere creando gruppi dominanti e lobby, che mettono in continuo pericolo l’equilibrio sociale. Inoltre, aumentando il livello di “atomizzazione” della società, le persone sono portate sempre più verso la disperazione e la solitudine, fornendo così terreno fertile per la violenza e la guerra.

Per mettere fine a tutto ciò è necessario creare e sostenere comunità e gruppi egualitari. Potrebbero essere comunità tradizionali basate sulla parentela di sangue, o altre, nuove e alternative, basate sull’affinità. Queste ultime non possono essere formate soltanto da gruppi di interesse – i gruppi di interesse si creano molto rapidamente, ma altrettanto facilmente si disgregano. Le nuove comunità basate  sull’affinità si creano piuttosto sulla base di un rapporto filosofico-spirituale tra i loro membri, i quali diventano membri di “sibling”, ovvero sorelle e fratelli per scelta. E’ così che creano  un “clan simbolico”. Il legame, qui, è molto più forte che non in un mero gruppo di interesse.

Se creati e guidati da donne, i nuovi clan simbolici tenderanno a diventare matriarcali, visto che il fattore decisivo della nuova società sono i bisogni delle donne, specialmente quelli legati ai bambini, che sono anche il futuro dell’umanità. L’ansia di potere e la sete di dominio degli uomini, qui, non hanno la priorità. Queste ossessioni ci hanno portato alle famiglie dinastiche, patriarcali, alle associazioni e ai circoli di uomini politici che escludono e tengono in soggezione le donne. I nuovi matriclan integrano pienamente gli uomini, ma lo fanno secondo un sistema di valori diverso, che si basa sulla cura e l’amore reciproco.

Sostenere la creazione di tali comunità dovrebbe essere un obiettivo politico.

Il livello politico

A livello politico, nelle società matriarcali tradizionali anche il processo decisionale avviene secondo le linee di discendenza. Il processo decisionale ha inizio nella casa del singolo clan. Le questioni che riguardano la casa del clan sono decise dalle donne e dagli uomini attraverso  un processo consensuale. Ciò significa che la procedura continua finché non si raggiunge l’unanimità. Lo stesso vale per le decisioni che riguardano l’intero villaggio. Dopo aver cercato consiglio nelle case dei clan, i delegati si incontrano nell’assemblea del villaggio, ma non prendono decisioni da soli. Comunicano, semplicemente, i risultati raggiunti nelle case dei loro clan. Essi tengono vivo il sistema di comunicazione del villaggio, spostandosi  avanti e indietro tra l’assemblea e le case dei clan, finché l’intero villaggio non ha raggiunto il consenso. La stessa cosa succede a livello regionale. I delegati si spostano tra l’assemblea del villaggio e quella regionale finché non si raggiunge il consenso.

E’ del tutto evidente che una società di questo tipo non può sviluppare gerarchie né classi, né tantomeno un vuoto di potere tra generi e generazioni. Definisco pertanto i matriarcati, a livello politico, società egualitarie basate sul  consenso.

I patriarcati, al contrario, sono società di dominio, anche se sono democrazie. Qui, le minoranze sono senza voce e la volontà politica della maggioranza è affidata ai voti nelle urne. Per una società davvero egualitaria a livello politico, il principio del consenso matriarcale è di massima importanza. Questo principio è la base per costruire nuove comunità matriarcali. Impedisce che correnti scissioniste, gruppi o singoli possano dominare il gruppo, e crea equilibrio tra i generi e le generazioni. Il consenso è anche il vero principio democratico, e offre, dunque, ciò che la democrazia formale promette, ma non realizza mai.

Secondo questo principio, saranno le piccole unità di clan dei nuovi matriclan simbolici a prendere realmente le decisioni, ma questo può essere messo in pratica solo a livello regionale. In una prospettiva di sussistenza, l’obiettivo politico è la creazione di regioni autosufficienti,  e non grandi stati nazione, confederazioni di stati e superpotenze, che servono unicamente ad arricchire il governo dei potenti, e a ridurre gli individui a “risorse umane”.

Il livello culturale

A livello spirituale e culturale le società matriarcali tradizionali non hanno religioni basate su un dio – invisibile, intoccabile, incomprensibile, ma onnipotente – e un mondo che, al contrario, è degradato a “sostanza morta”. Nel matriarcato la divinità è immanente; divino femminile, che si esprime in una concezione dell’universo come Dea che crea ogni cosa, e come Madre Terra che produce tutto ciò che vive. Ogni cosa ha in sé il divino, ogni donna e ogni uomo, ogni pianta e animale, il sassolino più piccolo e la stella più grande.

In una cultura così tutto è spirituale. Ogni cosa viene celebrata nei festival che seguono i cicli stagionali: la natura nelle sue molteplici espressioni, i clan con le loro diverse qualità e competenze, i generi e le generazioni, secondo il principio “la diversità è ricchezza”. Non c’è separazione tra sacro e secolare, quindi, i compiti quotidiani – seminare, raccogliere, cucinare, tessere, costruire una casa e fare un viaggio – hanno allo stesso tempo un significato rituale.

Definisco i matriarcati, a livello spirituale, società sacre in quanto culture della Dea, laddove nei patriarcati, con le religioni di stato, si abusa delle facoltà spirituali e religiose per sostenere chi detiene il potere e i sistemi di governo.

A livello culturale, dobbiamo pertanto abbandonare quelle religioni gerarchiche con un dio trascendente e una pretesa alla verità totale, che hanno portato al disconoscimento della natura e dell’umanità stessa, in particolare quella delle donne. E’ necessario, invece, imparare nuovamente a vedere il mondo come santo, amarlo e proteggerlo perché, secondo la cultura matriarcale,  ogni cosa nel mondo è divina.

E’ per questo che ogni cosa è onorata e celebrata in modo libero e creativo – la natura nei suoi molteplici aspetti e nella diversità degli esseri viventi, la grande varietà degli individui  umani, delle comunità e delle culture. Perché il mondo intero è la Dea.

La nuova spiritualità matriarcale potrà di nuovo pervadere ogni cosa e divenire così parte integrante della vita quotidiana. La tolleranza matriarcale,  secondo cui nessuno deve “credere” alcunché, diverrà nuovamente visibile.  Non vi è dogma né insegnamento, ma la continua e variegata celebrazione della vita e del mondo visibile.

Spero che sia chiaro, ora, come  il cammino verso un’altra società, egualitaria, debba  combinare la spiritualità matriarcale sia con la politica sia con l’economia. L’obiettivo è di offrire a tutti una vita buona. Questo bene comune può essere garantito dalle strutture organizzative e dalle procedure che ho descritto prima. I modelli delle società tradizionali matriarcali, vissuti lungo i millenni, possono offrirci stimoli e suggerimenti, contrariamente alle utopie teoriche.

La visione di una nuova società egualitaria può essere solo olistica, senza per questo essere vaga. Deve essere concreta senza perdersi in inutili dettagli. Un simile modello, che presenti in modo integrato tutte queste caratteristiche, lo chiamo   “modello matriarcale”. Fin da adesso può essere un progetto chiaro e una linea guida pratica per un futuro migliore.

Verso un modello matriarcale

1-Le strutture sociali matriarcali

I sistemi sociali non patriarcali presentano  strutture diverse da quelli patriarcali e si distinguono per alcune caratteristiche, che chiamo “matriarcali”. Per quelle di noi che hanno interiorizzato come “seconda natura” le strutture sociali patriarcali, queste caratteristiche sono molto importanti. Dimostrano l’infondatezza del comune fraintendimento, secondo cui le donne avrebbero l’ultima parola nei matriarcati, o che dominerebbero sugli altri. Questi pregiudizi riflettono il presupposto non dimostrato, secondo cui l’organizzazione delle  società matriarcali sarebbe tale e quale l’organizzazione patriarcale, ma con le donne, invece degli uomini, nei posti  centrali. Nessuna ricercatrice seria ha mai suggerito niente di simile.

Tuttavia, non dobbiamo essere reticenti sull’uso del termine “matri-arcato”, per il quale non esiste un equivalente del termine “patri-arcato”. La desinenza “arcato ” deriva dal greco “arché”, che ha due significati: “dominazione” e “inizio”. Il significato di inizio è evidente in termini come “arcangelo”, “arca di Noé”, o “archetipo”.

Per una questione di chiarezza, “patriarcato” deve essere tradotto come “dominio dei padri”, mentre “matriarcato” significa “all’inizio, le madri”. Questo è il punto! In termini di storia culturale, i matriarcati sono più antichi dei patriarcati, poiché si sono sviluppati successivamente.  I matriarcati sono all’origine della storia delle culture, e si sa che le madri sono all’origine o all’inizio di ogni essere vivente. Sono culture che hanno trasformato questo fatto naturale in un modello culturale.

Significato della linea materna

Una caratteristica delle strutture matriarcali tradizionali è che le relazioni tra i parenti sono determinate dalla linea materna. Le numerose relazioni d’amore, spesso, impedivano di identificare la paternità, mentre quando c’è una nascita c’è anche la maternità. Quand’anche la paternità fosse stata conosciuta, non sarebbe stata poi così importante, non essendo quello il principio primario che informava la società.

La linea materna, o matrilinearità, è un principio fondamentale, che inteso come  “ordine simbolico della madre” (Luisa Muraro) viene applicato a ogni cosa. E’ attraverso la matrilinearità che si stabilisce la discendenza di sangue delle comunità claniche, le quali costituiscono il mondo sociale entro cui si muovono i popoli matriarcali. Non solo il nome della famiglia estesa, ma anche gli onori sociali e i titoli politici vengono ereditati secondo la linea materna.

Gli abitanti di un villaggio o di una città sono tutti più o meno strettamente imparentati. L’intento è di assicurare un network di parentele matrilineari a ogni località, che funga da sistema di aiuto reciproco. In questo modo, si crea una società basata su relazioni non gerarchiche, orizzontali ed egualitarie, che funziona come un clan esteso di mutuo aiuto.

La stessa cosa avviene a livello regionale attraverso il principio di matrilinearità simbolica. I clan con lo stesso nome vivono di proposito  in un dato villaggio, o città, di una particolare regione. Quando una persona di un clan è in viaggio, o si sposta per motivi commerciali e giunge in un altro villaggio, dove vive un clan con lo stesso nome, la persona viene ricevuta come un fratello o una sorella,  anche se non ci sono più legami di sangue. L’intera regione è collegata grazie al sistema di parentela simbolica e all’associazione del mutuo aiuto. E’ così che il principio di matrilinearità dà forma a tutta la società.

Relazioni di genere

Le donne non si allontanano mai dalla casa del loro clan materno e dalla sicurezza economica e sociale che offre. Questa sicurezza è garantita dal clan matrilineare e consente libertà in fatto di scelta dell’amante. Le donne non dipendono da un uomo nel sostentamento, come nella famiglia nucleare patriarcal-borghese. Non devono temere di cadere in povertà con i loro bambini, o di perdere la casa se si separano dal  partner. Le relazioni matrimoniali e di amore possono cambiare nel tempo, ma la propria casa, stabile, resta quella del clan di appartenenza. E, visto che  tutti i membri del clan si prendono cura dei bambini, cambiare relazione non significa privarli delle attenzioni necessarie.

Gli uomini matriarcali non vivono con le loro spose o amanti, ma si fermano solo per la notte, durante il cosiddetto “visiting marriage”. La loro casa è la casa-clan delle loro madri, dove hanno i diritti e i doveri di membri a tutti gli effetti, perciò vivono e lavorano là. I bambini delle spose e degli amanti appartengono alla casa-clan della loro madre, visto che portano il nome del suo clan. Gli uomini non considerano questi bambini come i “loro”, poiché  hanno un nome di clan diverso. Tuttavia, i bambini delle sorelle degli uomini hanno lo stesso nome del clan, così come gli uomini. Questi ultimi, considerano i loro nipoti maschi e femmine come “figli” e se ne prendono cura tutti insieme.  In questo senso, gli uomini hanno il ruolo di “padri sociali” per i figli delle loro sorelle.

Ogni genere ha la propria sfera d’azione, precisi  compiti e precise responsabilità. Fa parte della singolare “dignità” di ciascuno. Non c’è sopraffazione di un genere sull’altro. Nei matriarcati i generi hanno sfere d’azione distinte, che si caratterizzano con  elementi spirituali ed economici diversi. Queste sfere sono reciprocamente collegate, e si basano sul principio di equilibrio per impedire che si creino situazioni di dominio.

Il sentimento comune, secondo cui le donne sono sacre, non turba affatto questo equilibrio. Non è la singola donna a essere oggetto di devozione, ma le donne in generale, specialmente le più anziane o “matriarche”, ciascuna delle quali è la reincarnazione di un’antenata, che ha dato origine alla discendenza di sangue, creando così la società.

Relazioni tra generazioni

La “lotta dei sessi” e il “gap generazionale” sono concetti sconosciuti nelle società matriarcali. A differenza dei modelli di potere patriarcali, qui non si assiste alla ribellione dei figli contro i padri, né tanto meno alla competizione tra madri e figlie – competizione per confermare il proprio ascendente. Al contrario, nel matriarcato la gioventù e gli anziani sono tenuti in grande considerazione.

Ogni generazione ha la propria “dignità” o “onore”. I bambini sono considerati le reincarnazioni maschili e femminili degli antenati e sono dunque sacri. Questa è la loro dignità. La dignità delle donne giovani è rappresentata dall’amore, la creatività e la maternità, ma non tutte le donne devono diventare necessariamente madri. Le sorelle vivono la maternità in comune, crescendo insieme i bambini. Anche la dignità degli uomini più giovani è rappresentata dall’amore e dalla protezione offerta alle loro sorelle e ai bambini delle loro sorelle. La dignità delle donne più anziane si esprime nell’essere le matriarche del clan, che si prendono  cura della vita del gruppo e la guidano.  La dignità degli uomini è di svolgere la funzione di rappresentanti e delegati dei clan verso il mondo esterno. Spetta alla dignità degli anziani, uomini e donne, di onorare gli antenati, proteggere le tradizioni e insegnare alle persone più giovani. Gli anziani consigliano anche le matriarche del clan e, insieme, formano il concilio degli anziani.

Come formare nuovi modelli sociali matriarcali?

Molti problemi del mondo occidentale sono dovuti all’atomizzazione della società che, come conseguenza, porta le persone a vivere forme estreme di individualismo, solitudine ed esclusione sociale. Questo modo di vivere non ha futuro. E’ per questa  ragione he sta diventando sempre più urgente sviluppare nuovi modelli sociali. Questi nuovi gruppi e queste nuove comunità non si baseranno su relazioni di sangue, ma di sorellanza e fratellanza.

Il vincolo di sangue fondato sull’unità della famiglia è ormai in fase di declino, almeno in gran parte del mondo occidentale. Si sviluppano sempre più legami tra le persone in base a interessi intellettuali, politici e/o spirituali, i cui confini sono molto più aperti dei legami di sangue vincolati dalla nascita, favorendo così una maggiore libertà di scelta individuale. Ma, allo stesso tempo, sono molto più vincolanti dei rapporti convenzionali. Essere membri di “sibling” offre il vantaggio di una relazione duratura; significa responsabilità e aiuto reciproco, ma anche libertà di scelta.

Tuttavia, essere membri di “sibling” è un’espressione molto generica e non rende esattamente il senso delle nuove comunità matriarcali.  E’ necessario un valore aggiunto alla struttura organizzativa, che contenga e determini la latente propensione matriarcale all’egualitarismo. Lo si può ottenere attraverso la formazione di un matriclan simbolico. Su quali principi si deve fondare un matriclan di questo tipo, alla cui base non ci sono vincoli di sangue?

La base è formata dall’unità della madre e del bambino e costituisce l’elemento di fondo del gruppo sociale. Sono le madri e i bambini a portare nuova vita a queste comunità. Senza di loro non ci sarebbero altre generazioni nel gruppo, nella comunità, o nella società nel suo insieme. Dunque, nessun futuro. Le donne che hanno bambini non si prendono cura soltanto dei loro figli, ma anche dei figli degli altri, e questa è la base della costruzione del clan. Sono loro a costituire il centro attorno al quale orbita il matriclan basato sulla sorellanza e la fratellanza.

Creazione di un matriclan simbolico

Se  una o due donne che hanno bambini  vogliono creare un clan di questo tipo il primo passo è di scegliere le loro “sorelle”, vale a dire, le donne senza bambini, quelle che vogliono allevare insieme i bambini in una maternità comune. Per i bambini queste donne sono chiamate “madri” e, per le madri, tutti i bambini sono “figlie e figli”. Questo gruppo di sorelle per scelta è limitato e, come tale, crea vicinanza e intimità nei bambini. E’ una struttura che consente a tutte le donne di “avere” bambini. Contemporaneamente, la condivisione della cura dei figli permette a tutte, madri naturali comprese, di dedicarsi a loro stesse e ai loro interessi professionali. Questo gruppo di “sorelle” deve anche scegliere un nome appropriato per il clan-base.

Il passo successivo di questo gruppo di sorelle o madri è di poter decidere di invitare o no gli uomini nel loro clan. Questi ultimi sono “fratelli” e non amanti. Le donne si fidano di loro perché avranno saputo dimostrare buone capacità di relazione sociale, prestando aiuto nel lavoro e contribuendo al benessere di tutti. Condivideranno ora con le loro sorelle la cura dei bambini. In termini di lavoro, idealmente, “fratelli” e “sorelle” possono  anche lavorare insieme. In questo modo, tutti gli uomini possono anche “avere” bambini, creando così un legame reciproco.

Tutti abbiamo ricevuto cure da bambini. Per un principio di equilibrio, dunque, ognuno, a sua volta, è tenuto a occuparsi anche dei bambini. C’è una specie di dovere etico nel condividere questo servizio, e questo è un principio matriarcale.

La famiglia nucleare addossa alle singole madri e ai singoli padri biologici l’intera  responsabilità della crescita dei figli. Quando scompare la struttura familiare, scompare anche questo obbligo. Contemporaneamente accade spesso che  i compiti di ruolo del padre vengano  meno e, di conseguenza, è la donna che si deve prendere cura di tutti gli altri. Oggi, in molte società le donne non solo non sono riconosciute per questo servizio, ma sono anche sottovalutate perché è un lavoro non pagato. Asili nido e scuole materne sono solo un ripiego per aggiustare una situazione che al momento è fuori controllo.

Nel modello del matriclan simbolico le cose vanno diversamente. La maternità e i suoi valori sono onorati, la propensione alla cura per l’altro è all’ordine del giorno. Ecco perché la base del clan poggia sulle madri, anche se le donne non sono necessariamente identificate con queste supposte qualità “femminili”, e come tali consacrate in questa nicchia. Nei matriclan può prevalere una maggiore giustizia, dal momento che tutti sono coinvolti nell’educazione dei figli. Ognuno ha così la possibilità di sperimentare una crescita emotiva e sociale positiva, e tutti hanno l’opportunità di sviluppare capacità professionali e altri interessi. Contemporaneamente, i bambini possono essere felicemente  integrati nel gruppo, proprio grazie alle molte  persone che si occupano di loro.

Matriclan e relazioni d’amore

I matriclan possono realizzarsi su questa falsa riga e insieme formare una comunità. Una comunità non significa che tutti debbano vivere insieme. Si potrebbero anche formare un’associazione di quartiere che comprenda domicili diversi, o sviluppare network regionali. In una struttura simile, i membri dei singoli clan possono fidarsi gli uni degli altri e darsi reciproco sostegno e sicurezza, proprio come tra “sorelle” e “fratelli” nel matriarcato.

Tuttavia, i rapporti d’amore avverrebbero non all’interno dei singoli clan, ma tra loro. L’amore conserverebbe così la propria spontaneità e libertà perché non sarebbe gravato dal dovere. Impostare un gruppo nel bel mezzo di  emozioni fluttuanti e di mutevoli relazioni renderebbe difficile occuparsi dei bambini e della loro sicurezza.

Il modello del matriclan offre la soluzione a due bisogni umani fondamentali: il bisogno di libertà in amore e il bisogno di sicurezza e protezione. Il patriarcato non ha mai offerto alcuna soluzione a questo problema, lo ha solamente represso. Nel clan simbolico si può trovare sicurezza e protezione, mentre la spontaneità dell’amore può esprimersi meglio fuori, negli incontri tra i clan simbolici.

Qualcuno potrebbe immaginare (immersi, come tanti sono, nel sistema sociale patriarcale) che questo modello produca relazioni superficiali e di breve durata, ma non è assolutamente così. Naturalmente, il fatto che gli amanti non appartengano allo stesso clan, e che non vivano e lavorino insieme, può forse facilitare le separazioni. Ma non c’è nulla che possa garantire le relazione  nel lungo periodo.  Si potrebbero approfondire maggiormente i rapporti proprio perché non appesantiti dai doveri quotidiani. Gli amanti potrebbero così dedicarsi a loro stessi, alla bellezza e alla spiritualità dell’erotismo, liberi da qualsiasi oppressione.

Generazioni nel matriclan simbolico

Una volta che le madri hanno scelto le loro “sorelle” e i loro “fratelli” , e che hanno creato un matriclan simbolico formato da due generazioni, il passo successivo è di estenderlo a tre o più generazioni. Si potranno ora scegliere persone in età avanzata che facciano loro da “madri” e “nonne dei bambini”, o “fratelli delle madri” e “fratelli delle nonne dei bambini”. Questi uomini e donne anziani hanno esperienza della  vita e sono perciò consiglieri e aiutanti importanti per le persone e per tutto il clan. Inoltre, tutti i membri del clan possono scegliere nel loro gruppo una donna “matriarca” e un uomo “sachem” (custode di pace), anziani che rappresenteranno il clan all’esterno.

Poiché i matriclan simbolici si fondano sulla scelta, la loro struttura non si fossilizza. Ogni scelta può essere sostituita da una scelta nuova. Non ci sono pressioni che costringono a mantenere la stessa responsabilità o a rimanere insieme. Le cose che si sono dimostrate funzionare rimarranno, tenendo presente che gli individui passano attraverso fasi di vita che cambiano. Ogni nuova scelta deve essere accostata con la stessa serietà delle scelte originarie, quelle con cui il clan, a suo tempo, si era dato un’impostazione.  Ciò impedirà l’affermarsi dell’arbitrarietà e del caos individuale. Ha senso stare insieme per un certo periodo e assumere un impegno per tre o quattro anni, e, comunque, ogni anno, i membri dei matriclan si fermeranno a riflettere sulla loro struttura, rinnovandola nel modo più appropriato.

Economia matriarcale

A livello economico, i matriarcati tradizionali sono economie bilanciate. In questo tipo di economia s’impedisce la disparità economica tra ricchi e poveri, provvedendo a una moderata prosperità per tutti. L’opposto dell’economia bilanciata è l’economia dell’accumulazione che caratterizza le società patriarcali. Armamenti, strutture economiche e denaro hanno permesso a una minoranza esigua di mantenere la maggior parte dei beni, prelevata direttamente o indirettamente con la forza dalla maggioranza delle persone.

Nelle società matriarcali tradizionali la proprietà privata e i diritti territoriali non esistono. In queste culture, la gente ha semplicemente il diritto d’uso del suolo che coltiva o dei pascoli delle loro greggi. Nella loro visione, la “Madre Terra” non può essere posseduta, o fatta a pezzi, perché dona a tutti i frutti dei campi e gli animali delle greggi. Il raccolto e le greggi non possono, pertanto, essere posseduti privatamente. Quindi, le società matriarcali hanno creato un’economia bilanciata, che utilizza il metodo della circolazione dei beni per prevenire l’accumulazione. Non ci sono eccezioni, tutti i beni acquisiti sono inclusi in questo processo di circolazione, siano essi agricoli, manifatturieri, o merci di scambio.

Economia interna del clan

I beni del clan vengono consegnati alle donne. Sono le donne, e precisamente le donne più anziane del clan, le matriarche, che hanno in mano tutti i beni e  sono responsabili del sostentamento e della protezione dei membri del clan. Le donne, o lavorano la terra o organizzano il lavoro. Anche i frutti dei campi e il latte delle greggi vengono consegnati a loro. Così come il denaro, che ora è guadagnato dagli uomini matriarcali, che prestano servizio come lavoratori saltuari fuori dalle loro comunità native. Ma questa è un’evoluzione recente. Tradizionalmente, le comunità matriarcali vivevano senza denaro, poiché non ce n’era bisogno. Le matriarche, degne della più profonda fiducia, ridistribuiscono ogni cosa con giustizia ed equità tra i membri del clan. Sono le manager economiche e le amministratrici. Organizzano l’economia seguendo un principio che non è quello del profitto – secondo cui la persona singola, o il piccolo gruppo di persone, trae beneficio – ma è piuttosto l’atteggiamento della logica materna quella che sottendere il loro agire. Il principio del profitto è centrato sull’ego. Gli individui, o una piccola minoranza, approfittano della maggior parte delle persone. Il principio della logica materna è il contrario: il benessere di tutti è al centro del sistema, e regna l’altruismo.

Contemporaneamente, è un principio spirituale che gli umani traggono dalla Madre Terra. Poiché la logica materna, in quanto principio etico, informa ogni sfera della società matriarcale, lo stesso vale anche per gli uomini. Se un uomo di una società matriarcale vuole raggiungere una posizione tra i suoi simili, oppure diventare un rappresentante del clan nel mondo esterno, il criterio è che “deve essere come una buona madre”(Minangkabau, Sumatra).

Economia tra i clan

Nel corso dell’anno, la variazione dei raccolti e gli esiti più o meno positivi delle attività commerciali potrebbero sviluppare delle differenze economiche tra i clan del villaggio o della città. In tal caso, i clan si affideranno al principio della circolazione dei beni e del surplus, all’interno del villaggio, per prevenire una situazione di accumulo.

I beni, così come la cura dell’altro, l’impegno, la creatività culturale nel dar vita a eventi rituali, tutto circola come dono, e si manifesta nei festival,  che sono il cuore di queste culture e la guida dell’ economia di queste comunità. Tutti insieme, nel villaggio o città, celebrano le feste dell’anno agricolo e i cicli della vita dei singoli clan. Nel corso dei festival, i beni, la cura per l’altro, l’impegno, le proposte culturali “circolano” non secondo il principio dello scambio per il profitto, ma semplicemente come doni.

Per esempio, è consuetudine che quando un clan ottiene un raccolto eccezionalmente abbondante lo regali alla prima occasione. Al festival successivo, il clan fortunato, che si sarà esteso, inviterà tutti al villaggio o città o distretto, prodigandosi nell’ospitalità e prendendosi cura del benessere di tutti. Gli ospiti saranno coinvolti con musiche, danze, processioni, eventi rituali e proposte culturali, e tutti saranno chiamati a partecipare secondo le proprie tradizioni religiose. Il clan organizzerà il festival e non vorrà nulla indietro. In una società patriarcale sarebbe un comportamento suicida e porterebbe alla rovina il clan donatore. Ma le società matriarcali funzionano secondo la massima “chi ha darà”.

Al festival successivo un altro clan, più ricco rispetto agli altri, assumerà questo ruolo. Tutti saranno invitati e verranno elargiti doni. Sono sempre i clan più ricchi ad avere la responsabilità dei festival, che si susseguiranno ciclicamente.

E’ evidente che in questo sistema non è possibile l’accumulo di materiale o di beni culturali in una prospettiva di guadagno e arricchimento personali. Al contrario, le pratiche economiche e culturali sono rivolte a livellare le differenze negli standard di vita, e per la gioia di tutti coloro che insieme partecipano agli eventi.

Un clan generoso non ha il diritto di pretendere indietro altri materiali o beni culturali. La sua “ricompensa” sarà l’onore che guadagna. “Onore”, nel matriarcato, significa che l’altruismo e la pratica sociale del dono dei clan sono tenuti in grande considerazione,  perché  la generosità del clan consolida e rafforza le relazioni tra i gruppi. Per “onore” si intende l’incommensurabile valore della relazione umana e della collaborazione. Gli altri clan saranno portati a sostenere  un clan simile,   allorché necessiti di qualcosa o attraversi un periodo di difficoltà. Questa reciprocità è anche una questione di onore. In queste culture, donare non è soltanto un atto arbitrario relegato alla sfera privata, ma è la caratteristica centrale delle loro società. Ciò dimostra come l’economia del dono non sia soltanto una pratica incidentale, ma possa funzionare come solido fondamento per tutta la società. ( Genevieve Vaughan, “Per-donare”)

Economia interna del matriclan simbolico

Ora dobbiamo occuparci  di come dar forma a una nuova economia matriarcale, nei matriclan simbolici che ho proposto, il che significa una nuova economia del dono.

In questi gruppi di “sorelle”, i membri che saranno riusciti a formare nuovi matriclan simbolici condivideranno una profonda fiducia gli uni negli altri. “La priorità è dar forma a nuove relazioni, perché nel patriarcato le persone non sono abituate a pensare e agire in gruppi di affinità. Nel contesto patriarcale i singoli sono costretti ad auto-promuoversi attarverso una strenua competizione, e nessuno ha fiducia nell’altro, o può contare sugli altri. E’ questo l’ostacolo maggiore, ma non appena sarà superato, l’economia matriarcale di un clan simbolico potrà rapidamente svilupparsi.”

La dimensione che più si confà a un gruppo di questo tipo varia dai 20 ai 30 membri, numero che garantisce al gruppo la trasparenza economica. All’inizio, il clan ha eletto tra i suoi membri più anziani una “matriarca” e (se il matriclan comprende uomini) un “sachem”, o custode di pace. Entrambi devono essere “come una buona madre”. I membri del clan lasciano nelle loro mani beni e denari. E’ un onore personale per la matriarca e il sachem, che sono personalmente responsabili della distribuzione dei beni, che servono a sostenere in modo equo tutti i membri del clan. La responsabilità personale nel maneggiare i beni è importante e ha un’influenza particolare sulle persone. Può liberare i più nobili sentimenti umani, come il dare incondizionato, la vera devozione, la benevolenza e l’amicizia. Fcilita l’amore tra i membri del clan.

Tuttavia, le decisioni fondamentali che riguardano l’utilizzo dei tesori del clan non spettano alla matriarca o al sachem, ma al consiglio del clan, un corpo costituito da tutti i membri del clan. Come nei matriarcati tradizionali, questo concilio preparerà una delibera annuale su come debbano essere utilizzati i beni della vita quotidiana. Prenderà anche in considerazione, caso per caso, le spese speciali. La matriarca e il sachem fungeranno da consiglieri del concilio del clan, ma entrambi dovranno votare nel processo decisionale, come tutti gli altri membri del clan.

Le questioni che normalmente  sarebbero sottoposte a un’acceso dibattito non sono granché importanti nelle discussioni del concilio. Per esempio, un uomo del clan che lavori fuori, nel mondo patriarcale, dovrebbe per questo fornire un contributo maggiore alla tesoreria del clan, rispetto agli altri membri che non sono ricchi quanto lui? No, dal momento che è altamente onorato dal poter dimostrare una così profonda attitudine al dono. E, in ogni caso, la protezione e l’amore delle sue “sorelle” e dei suoi “fratelli” del clan non possono essere confrontati  con qualsivoglia guadagno monetario.

Un’altra questione patriarcale che dovrebbe semplicemente scomparire è l’idea di dare troppo poco. Non dovrebbe essere importante se per un certo periodo una donna con  bambini piccoli possa o meno contribuire alla tesoreria del clan. Sta  offrendo un regalo che ha un valore molto più alto, il regalo di una nuova vita. Tramite lei tutto il clan può avere bambini e ha, perciò, un futuro. In questo modo, il divario tra il lavoro degli uomini e quello delle donne per allevare i bambini – mal pagato o non pagato affatto – può scomparire come problema. Dunque, si risistemano le cose.

L’economia tra i matriclan simbolici

Esiste già, a questo punto,  un gruppo esteso di diversi matriclan che forma una comunità, un’associazione di quartiere, o un network regionale. Questi matriclan potranno sostenersi reciprocamente sia con beni sia con denaro, visto che sono un organismo di mutuo aiuto, alla stregua di una comunità matriarcale. Nel corso delle iniziative e dei festival comuni potranno  praticare l’economia matriarcale bilanciata. I singoli clan  sponsorizzeranno  i festival, o le iniziative, a seconda delle loro possibilità economiche. Il principio guida è “chi più ha più darà”. Quei clan che in precedenza avevano donato più degli altri, e che ora si trovano economicamente deboli, saranno sostituiti da  altri clan, che forniranno loro un adeguato sostegno. Ciò ha lo scopo di garantire la circolazione dei beni e del denaro tra i clan e, contemporaneamente, creare un equilibrio economico. Ogni clan dovrebbe promuovere costantemente l’equilibrio. Si tratta di un’iniziativa molto stimolante, che mette in gioco la creatività di ognuno, e che offre la possibilità di costituire comunità più ampie.

In una comunità matriarcale di questo tipo, farla finita con il denaro come mezzo di scambio, sarebbe un obiettivo auspicabile. Lentamente, può essere  sostituito dalla circolazione dei beni e dei servizi. Il denaro è importante solo per trattare con il mondo “fuori”,  ossia per le faccende che riguardano i pagamenti al di fuori della comunità. A questo proposito si potrebbe istituire una tesoreria della comunità, proprio sull’esempio della tesoreria del clan e affidarla al “Concilio dei Saggi”, un gruppo scelto tra i clan e formato dagli uomini e dalle donne più anziani. Ma, come per la tesoreria del clan, questi amministrerebbero soltanto la tesoreria della comunità, mentre le decisioni circa il modo di spendere il denaro sarebbe compito del concilio della comunità.

Questa modo di relazionarsi con la ricchezza crea legami emotivi che durano nel tempo, richiede pertanto un impegno nei confronti del benessere di tutta la comunità. I beni donati saranno restituiti ai clan donatori nel lungo periodo, ma non è questo il punto. La vera questione è il cuore leggero da cui proviene il dono, e i doni non possono essere presi per scontati. In definitiva, questa attitudine verso il dare incondizionato dimostrerebbe che nelle nuove comunità il valore etico più importante è la logica materna.

E’ evidente che un’economia del dono può funzionare solo in ambienti circoscritti, o comunque ristretti. Ma man mano che si creano nuovi matriclan simbolici e comunità matriarcali si può diffondere l’economia del dono, e il denaro diverrebbe superfluo.

Pratica politica matriarcale

L’economia matriarcale del dono dipende dal processo decisionale, vale a dire, dalla pratica politica matriarcale.

Nelle società matriarcali tradizionali la vita politica non è separata dalla vita quotidiana. A differenza di altre società dove partiti politici, parlamenti, senati, commissioni e governi si comportano come se i cittadini non esistessero (democrazia formale), i matriarcati prendono le loro decisioni in un contesto di “democrazia dal basso ”. Questa democrazia si basa sul consenso e si applica al matriclan di ogni singola casa del clan, così come alla comunità del villaggio locale, o alla comunità tribale di una regione.

Due sono le condizioni di base per raggiungere il consenso: la definizione del limite e il processo strutturato. La definizione del limite riguarda il numero dei membri di un insediamento matriarcale – non più di tremila persone. Diversamente, si perderebbe la trasparenza senza raggiungere il consenso. Ogni insediamento è un “villaggio-repubblica” autonomo. La politica tribale della regione si basa sulle decisioni prese nei villaggi, e raggiunte di volta in volta a partire dalle case dei clan, dove tutti sono coinvolti. In questo modo, ogni persona partecipa al processo consensuale.

Processo strutturato del consenso

La base della pratica politica matriarcale è il concilio del clan, l’assemblea di tutti i membri adulti nella casa del clan. A partire dal tredicesimo anno i ragazzi sono considerati membri effettivi del concilio. E’ qui che vengono stipulati gli accordi.  Qualunque decisione ha origine nella casa del clan e vi ritorna alla fine di ogni ciclo di consenso. All’inizio, le donne e gli uomini si incontrano in assemblee separate dove raggiungono decisioni consensuali diverse. Questo sistema rispecchia sfere di azione e responsabilità differenti, e compiti diversi. In questo modo, durante il primo round di costruzione del consenso  si definiscono le diverse prospettive  degli uomini e delle  donne.

Dopo le assemblee separate, le donne e gli uomini si incontrano nella casa del clan per trovare un consenso condiviso. La matriarca guida e aiuta il clan a raggiungere un accordo unanime. I suoi suggerimenti sono tenuti in grande considerazione, tutti hanno fiducia in lei, ma in definitiva lei ha una sola voce, proprio come chiunque altro. Se la decisione riguarda solo il clan, allora la procedura finisce qui.

Concilio del clan, concilio del villaggio, concilio della tribù

Una volta che le diverse case del clan hanno raggiunto il consenso inviano i loro delegati al concilio del villaggio per comunicare le decisioni. I delegati possono essere sia la matriarca sia il sachem (il più fidato tra i suoi fratelli), insieme o singolarmente; essi sono solo dei portavoce dei clan. Non prendono decisioni, come succede nei parlamenti e nei governi delle nostre democrazie.

Le assemblee del concilio del villaggio sono pubbliche e, tutti, dunque, possono ascoltare e controllare ciò che riferiscono i delegati. Questi, trasmettono semplicemente le decisioni prese nelle case dei clan. Se si raggiunge il consenso termina anche la procedura; se non lo si ottiene, allora, i delegati fanno ritorno alle loro case del clan e riferiscono sullo stato delle cose. Riprendono le consultazioni in base ai nuovi dati raggiunti nel concilio del villaggio. Dopo aver ottenuto un secondo consenso i delegati si incontrano di nuovo nel concilio del villaggio per mettere insieme le decisioni, spostandosi tra il concilio del clan e quello del villaggio, finché tutto il villaggio non ha raggiunto un accordo unanime.

Il sistema funziona esattamente allo stesso modo a livello regionale. Se l’intera regione non è d’accordo su un certo risultato, si riprendono le consultazioni nelle case dei clan, poi nel villaggio, finché non si raggiunge l’unanimità. A quel punto, i vari villaggi eleggono i delegati, e poiché questi devono affrontare lunghi viaggi, sono in prevalenza gli uomini a essere scelti per questo ruolo. Le donne preferiscono non lasciare il territorio e le case del clan, che sono i centri più importanti della comunità.

I delegati giunti dal villaggio si incontrano nel concilio regionale, e anche in questo caso non sono loro a decidere, ma comunicano semplicemente le decisioni consensuali raggiunte nei vari villaggi. Se a livello regionale non vi è il consenso di tutti, i delegati ritornano alle loro case del villaggio e fanno un resoconto sullo stato delle cose. Nelle case-clan dei villaggi della regione riprendono allora le consultazioni. I delegati dei villaggi si spostano avanti e indietro tra il concilio del villaggio e quello regionale, fino quando non viene raggiunto un consenso fra tutte le case del clan e i villaggi della regione. A ogni fase di questo processo le case del clan sono le prime e le ultime a essere consultate. In questo modo, il processo politico raggiunge infine chi realmente decide, cioè ogni singola persona.

Il processo strutturato del  consenso permette alle società matriarcali di funzionare come una democrazia dal basso. La pratica politica matriarcale si fonda sempre sul consenso, prevenendo la formazione di qualsiasi struttura di potere chiusa.

Risoluzione del conflitto

La procedura del consenso previene anzitutto il sorgere di forme di conflitto. Naturalmente, anche chi vive nelle società matriarcali conosce i conflitti; tutti sono umani e hanno perciò delle debolezze, ma elaborano modi particolari di risolverle. Per esempio, quando sorgono conflitti tra i singoli membri del clan, questi cercano di aiutarsi l’un l’altro per risolvere il problema affinché non si estenda all’intero villaggio. Quando sorgono conflitti tra i clan, gli altri clan fanno da mediatori. Un aiuto arriva anche dal “Concilio dei Saggi”, un gruppo formato (sia a livello del villaggio sia della regione) dalle donne e dagli uomini più anziani, che opera da mediatore nelle situazioni di conflitto, e che ha la funzione di richiamare tutti al rispetto dei valori etici della comunità. E’ questo il motivo per cui il “Concilio dei Saggi” è anche una sorta di Concilio di Pace. Non ci sono conflitti di gruppo insormontabili che sfocino in una guerra civile come nelle società patriarcali. Il clan che desidera vivere in modo diverso lascerà il villaggio stabilendosi in una zona diversa della regione. Il clan dissidente vivrà nel nuovo posto secondo le proprie idee, riprendendo al più presto i rapporti con il proprio luogo d’origine, grazie allo scambio di visite che avvengono tra  i membri dei clan.

Raggiungere il consenso nei matriclan simbolici

I nuovi matriclan simbolici non possono essere considerati come “case-clan” e le nuove comunità matriarcali come “villaggi”. Le decisioni vengono prese con l’aiuto del processo strutturato di consenso che ha inizio nei clan simbolici, dove le persone si sentono e si comportano come membri di “sibling”. La formazione  di questi clan crea un forte senso di fiducia reciproca tra le persone. Il processo di consenso avviene in un’atmosfera di reciprocità che lascia a tutti la possibilità di dire apertamente quello che pensano, e in modo del tutto diverso dalle sessioni plenarie, dove perlopiù sono i bravi oratori ad affermare il proprio ascendente. L’esiguo numero dei membri all’interno dei gruppi dei clan risulta efficace anche in termini di tempo.

Ma, naturalmente, non tutti i conflitti riguardano tutti. Le questioni personali e quelle riguardanti il clan rimangono all’interno del clan simbolico, mentre le questioni relative alla “comunità” o al “villaggio” restano al loro interno. Si creano   scambi anche su più vasta scala,  in termini di relazioni tra i vari “villaggi” o comunità, a livello regionale.

Concilio dei matriclan simbolici e Concilio della Comunità

A livello dei clan simbolici, i gruppi delle donne e degli uomini raggiungono dapprima un consenso separato. Oggi, questo è molto importante, considerato che le prospettive delle donne trovano poca o nessuna considerazione nella società.

La matriarca eletta dovrebbe guidare il concilio delle donne, e il sachem quello degli uomini; i due gruppi si incontrano quindi per cercare un consenso comune con l’aiuto della matriarca e del sachem.

Se il problema riguarda tutta la comunità o il “villaggio” (o anche un network di villaggi in un quartiere), si può allora utilizzare il sistema dei delegati. Sarebbe meglio non utilizzare gruppi di delegati basati sul genere perché finirebbero solo per rinforzarne gli stereotipi. La scelta migliore sarebbe quella della matriarca e del sachem che, insieme, rappresentano il loro clan o villaggio al concilio della comunità o a quello regionale, qualora fossero stati eletti come rappresentanti della comunità.

Nel concilio della comunità sono solo i delegati a parlare, ma tutti ascoltano. Chi ascolta ha una funzione molto importante: monitorare la pratica politica dei delegati e accertarsi che si attengano al solo compito di comunicare informazioni relative alle decisioni del gruppo, senza che questi prendano decisioni di propria iniziativa.

Oggi, nella maggior parte delle società questo è un sistema poco diffuso,  visto che la gente è ben disposta ad abdicare alle proprie responsabilità, mentre altri si ostinano a monopolizzare i processi decisionali. Ma, il concilio della comunità o del villaggio può essere il luogo adatto dove praticare queste due funzioni: riferire correttamente e ascoltare con attenzione.

Allo stesso tempo, si possono integrare tutte le opinioni. Una volta che il processo di consultazione torna al clan, ogni persona è tenuta a valutare le opinioni di tutti gli altri clan e a integrarle, dando così vita a un processo molto creativo.

Concili speciali per risolvere i conflitti

Per risolvere i conflitti tra clan nelle nuove comunità è indispensabile “il Concilio dei Saggi”. Eletto tra le donne e gli uomini più anziani (oltre i 50 anni), i membri di questo concilio non devono essere contemporaneamente utilizzati per il clan e per la comunità. Ciò significa che devono agire come parte terza, neutrale, per risolvere i conflitti tra i diversi gruppi. Solo se questi membri del concilio si attengono al principio di neutralità possono essere davvero indipendenti, e portare pace nelle situazioni di conflitto tra i matriclan simbolici. L’idea, inoltre, è che restino in contatto con concili analoghi di altre comunità, imparando così a costruire la pace a partire dall’esperienza degli altri, oltre a trasmettere la propria conoscenza. Possono anche essere invitati da altre comunità e partecipare ai loro “Concili dei Saggi”, contribuendo così alla risoluzione dei conflitti in quei luoghi.

Rispetto ad altri concilii, questo non resta confinato nella propria comunità, il che è molto importante in termini di trasmissione di idee e di attuazione di iniziative all’interno del processo di cooperazione tra comunità a livello regionale.  E’ questo il luogo per fare proposte e lanciare iniziative al fine di risolvere i conflitti regionali che potrebbero sorgere tra le comunità.

Inoltre, è importante che ciascuna comunità o “villaggio” crei concilii di genere separati per mantenere distinte le modalità di percezione del mondo delle donne e degli uomini. Nel concilio degli uomini o delle donne i membri della comunità si incontrano con il loro genere opposto per valutarne i punti di vista, aiutarsi con auto-riflessioni reciproche, valutare collettivamente idee e questioni all’ordine del giorno, filosofie e principi, ricevendo stimoli che influenzeranno la loro specifica concezione del mondo. Questi concilii, come il Concilio dei Saggi, non hanno potere decisionale, ma offrono stimoli in forma di iniziative e idee per integrare i diversi punti di vista nel processo decisionale del concilio del clan.

Alla pari del Concilio dei Saggi, questi concilii di uomini e donne non sono confinati all’interno della loro comunità, ma si fanno reciprocamente visita, creando una circolarità di idee intorno a situazioni di genere specifiche. Nascono e si scambiano nuove idee, allo stesso tempo diventa più facile individuare i modelli patriarcali e incoraggiare nuovi sistemi. Anche questo è un modo per incamminarci verso una società di pace.

Spiritualità matriarcale

Non è l’economia né la pratica politica in sé, ma piuttosto l’idea di un mondo migliore a far sì che la gente inizi a esplorare nuove comunità, lasciandosi dietro vecchi modelli e relazioni. Questa idea ha sempre avuto radici spirituali profonde e può essere realizzata soltanto per mezzo di energie spirituali.

A livello spirituale, le società matriarcali tradizionali sono particolarmente significative perché sono state sempre società sacre, contrariamente alle più recenti società patriarcali. Dopo la prima intrusione del pensiero strategico-militare, che ha avuto un effetto secolarizzante, il processo sociale di divisione tra aspetto religioso e secolare ha continuato a caratterizzare il mondo patriarcale fino a oggi. Oggigiorno, “niente più è sacro”, laddove nelle società matriarcali ogni cosa è letteralmente sacra. Senza la conoscenza della spiritualità matriarcale praticata in queste società non si potranno capire né i loro modelli sociali né quelli economico-politici.

Una concezione diversa del divino

Nelle culture matriarcali tradizionali il divino è considerato immanente alla natura e alla cultura. E’questa la ragione per cui ogni cosa è considerata sacra. Non esiste un dio trascendentale fuori dal mondo, ma il mondo stesso è divino, ed è una divinità femminile. Nell’area mediterraneo-europea e del vicino oriente possiamo trovare conferma di questa concezione, espressa dalla credenza diffusa nelle due dee primordiali, il cosmo e la terra. La dea cosmica primordiale è la creatrice, come la dea egizia Nut, che da sola ha dato vita a ogni cosa nel mondo. La terra è considerata l’altra dea primordiale, è la Grande Madre di tutti gli esseri viventi. E’la Gaia pre-ellenica, per esempio, l’indiana Prithivi, la mediterranea Magna Mater. Queste dee primordiali rispecchiano la concezione matriarcale, secondo cui il femminile è onnicomprensivo.

Al di fuori di questo principio femminile, onnicomprensivo, tutto il resto si sviluppa in polarità dinamica. Tali coppie polari sono per esempio la luce e il buio, l’estate e l’inverno, il movimento e la quiete, il femminile e il maschile. Nel matriarcato questa equivalenza complementare non è assolutamente presa in considerazione, a differenza di quanto è successo più tardi nelle filosofie patriarcali. Infatti, il mondo è visto come un “tutto”, dove ogni aspetto delle due polarità è in perfetto equilibrio.

Vita quotidiana e giorni di festa in un “mondo sacro”

Poiché tutti gli elementi e gli esseri sono di origine divina, ogni cosa è anche perciò sacra. Che cosa significa per la vita quotidiana? Non c’è rigida separazione tra la “vita quotidiana” di quando si lavora, e i “giorni di festa” di quando ci si dedica alle pratiche devozionali e non si lavora. Nel matriarcato ogni attività condivisa – come arare, seminare, raccogliere, cucinare, tessere, costruire una casa – è un rituale dal significato profondo, e qualsiasi strumento quotidiano, sia esso un aratro, un fuso, un focolare, ha anche un significato simbolico. Il lavoro stesso non è solo e strettamente incentrato sul profitto, cosa che lo rende alienante ed estenuante nelle civiltà patriarcali, ma è volto a esprimere la gioia della vita in tutti i suoi aspetti. Il lavoro, perciò, è onorato e svolto come un rituale.

Queste attività rituali quotidiane vengono messe in risalto nel corso dei numerosi festival, quando sono trasformate in grandi cerimonie e rappresentazioni sacre a cui partecipa l’intero villaggio o comunità. Qui, di nuovo, ogni cosa che viene celebrata è già presente nella vita quotidiana. I popoli matriarcali non celebrano divinità trascendentali, gerarchie di esseri spirituali invisibili, o santi che si elevano al di sopra dei comuni mortali. Celebrano, invece, la varietà del mondo reale nel quale si trovano. Celebrano ciò che li circonda, ciò che sono e ciò che fanno. La loro attività spirituale fa quindi parte delle loro vite quotidiane, così come fa parte dei giorni di festa (i giorni dedicati ai grandi festival).

I festival matriarcali: specchio della natura e della società

La pratica spirituale matriarcale non è affatto astratta: libri sacri, dogmi e teologie sono concetti sconosciuti. La spiritualità matriarcale vive nei grandi festival e il loro significato complessivo lo si può cogliere proprio lì. C’è una grande ricchezza spirituale nei festival che si manifesta attraverso l’enorme complessità dei rituali e delle cerimonie. Rappresentano il cuore culturale di ogni villaggio, città, o comunità etnica, e presentano una gestalt che comprende tutti gli aspetti della vita. Rispecchiano i modelli sociali tra i generi, le generazioni e i clan. Inoltre, corrispondono all’economia matriarcale, alla storia, e al calendario (stagionale) e, più precisamente, alle relazioni che gli esseri umani intrattengono con il mondo naturale. Per loro, il mondo naturale è l’incarnazione della dea.

I festival stagionali ciclici celebrano gli aspetti mutevoli della natura, intesa come insieme che comprende tutta la terra e il cosmo, e non soltanto gli immediati dintorni. Nell’area culturale europeo-mediterranea e del vicino oriente la natura si manifesta come triplice Dea. In primavera appare come la giovane Dea Bianca, la Regina dei Cieli, dispensatrice di luce e nuova vita. In estate come la Dea Rossa nel pieno del suo rigoglio, l’amante della terra, dispensatrice dell’amore e della fertilità. In autunno, come la Dea Nera, la saggia megera, la Regina dell’altro mondo che riporta la vita nella profondità della terra e delle acque. E’ anche la trasformatrice della vita durante l’inverno e quella che, attraverso la rinascita, la fa riemergere nuovamente dalle profondità. Questi diversi aspetti della Grande Dea simboleggiano il ciclo annuale e il ciclo vitale, che continuamente si ripetono. Il mondo è visto come una triplice creatura: cielo, terra e oltretomba.

I popoli matriarcali celebrano anche se stessi, i generi e le generazioni, tutto è espressione del divino. I bambini e i giovani vengono celebrati nelle feste di iniziazione. Gli adulti nelle feste del matrimonio sacro, una cerimonia che riunisce simbolicamente tutte le polarità del mondo: il cielo e la terra, il sole e la luna, la Dea e gli umani. Le persone più anziane, specialmente le donne più anziane, in quanto madri dei clan, sono onorate nelle feste di merito. Seguono poi le grandi feste in onore degli antenati, in particolare, delle antenate. Anche chi dimora nell’altro mondo appartiene al clan e deve nuovamente rinascere come creatura nuova. E’ così che si esprimono le diverse qualità delle generazioni e dei generi, e che si risalta l’onore e la specifica dignità di ciascuno.

Allo stesso tempo, si rende manifesta la rete di relazioni tra i clan, che nella società matriarcale hanno la responsabilità dell’organizzazione dei festival stagionali, attraverso cui si crea quella connessione spirituale che costituisce il modello dell’intera città o villaggio.

I festival matriarcali: calendario e cronache storiche

Attraverso i festival si rende visibile l’economia matriarcale sia a livello pratico sia a livello simbolico. A livello pratico, essi guidano l’economia matriarcale del dono reciproco (come descritto sopra). A livello simbolico, mettono in scena il calendario dell’economia agricola. I grandi festival stagionali sono allo stesso tempo feste della semina, della germinazione e della crescita, della raccolta e del decadimento. Mettono in scena un calendario agrario basato sulle osservazioni astronomiche.

I popoli matriarcali non sentono la necessità di avere libri di storia, che possono essere sostituiti nei festival con la rappresentazione della loro storia e con quella delle loro madri fondatrici, le antenate dei clan. Questi eventi vengono rappresentati con scene simboliche, come per esempio la storia della loro evoluzione sociale. E’ un modo animato di trasmettere la storia, che non è noioso, ma ricco di colore, drammatico, turbolento e pieno di partecipazione. La storia, pertanto, non ha nulla a che vedere con il passato, ma è un processo che si sviluppa nel presente attraverso la partecipazione ai rituali. Vengono messi in scena persino gli eventi storici che in un tempo passato avevano eventualmente minacciato la comunità matriarcale – episodi che avevano dato adito ad attacchi patriarcali e che, fortunatamente, sono stati risolti con un compromesso politico. La caratteristica principale della spiritualità matriarcale è la grande tolleranza. La Dea Terra primordiale, madre di tutti i popoli, è “Quella dai mille volti”, è del tutto naturale, quindi, che sia anche celebrata nei suoi mille diversi aspetti. La gente di montagna la venererà perciò nella forma della Dea Montagna, e la gente del mare nella forma della Dea del Mare. Nonostante questa diversità, che è vista come una grande ricchezza, la consapevolezza dell’unità della Dea primordiale non viene meno. Ma non è mai un’unità astratta, è una dea che si può vedere e toccare, perciò non è necessario convertire gli altri alla propria concezione. Per chi vive in montagna sarebbe un controsenso cercare di convertire alla propria dea chi vive sul mare. La tolleranza matriarcale è così grande che in alcuni casi integra anche gli dei della religione patriarcale, come Gesù e Maria, perché ai missionari “piaceva quel modo”. Sebbene venisse meno l’esclusività cristiana, di cui il popolo matriarcale non capiva il senso.

La tolleranza matriarcale oggi

La tolleranza matriarcale ha un grande valore e può insegnarci molte cose oggi nel nostro mondo. È già sulla strada, anche se non è chiamata con questo nome. Sono molti i movimenti di persone che hanno abbandonato le religioni che pretendono un accesso esclusivo a Dio o alla verità, o una via esclusiva alla santità. Per loro, le religioni patriarcali tradizionali hanno perso credibilità spirituale in seguito agli  stretti legami con i governi secolari e i suoi governanti.

La spiritualità matriarcale non è una “religione” o una “teologia”, non è una “chiesa”, un “tempio”, una “sinagoga” o una “moschea”. Non ha “libri sacri” in cui è confinata la verità. Nessuno deve “credere” qualcosa che stenta a capire. La spiritualità matriarcale è la continua celebrazione di questo mondo e della vita. Per esprimerla, nel corso dei millenni, si è sviluppato un linguaggio di simboli che ha funzionato come base per la creazione di sistemi simbolici religiosi molto simili tra loro.  Questo linguaggio simbolico o “linguaggio della Dea” (Gimbutas) non ha bisogno di una fede cieca perché le immagini si spiegano da sole, sono immagini del cosmo e della terra.

La spiritualità matriarcale è la forma che meglio esprime la tolleranza nei gruppi di sorelle e fratelli, così come nelle nuove comunità, nei network e nella società nel suo insieme. Ha il potere di guarire la società e il mondo. Perché non dovremmo celebrare le innumerevoli visioni e i molteplici cammini spirituali e politici che in tanti già oggi seguono? E’ un tesoro spirituale di cui abbiamo molto bisogno in questi tempi. L’unico atteggiamento sgradito sarebbe l’intolleranza e lo zelo missionario.

I festival come nuovi centri della vita

Sono convinta che molte persone, specialmente donne, stiano già praticando la spiritualità matriaracle nella loro vita quotidiana e che la celebrino già con meravigliose feste. Stanno già usando, in modi diversi, il linguaggio simbolico matriaracle. La venerazione libera e creativa della dea può facilitare la formazione di gruppi di affinità spirituale, matriclan simbolici, nuove comunità e un sistema di unità matriarcale. In queste nuove unità, attraverso il linguaggio simbolico matriarcale si potrà rappresentare la complessità dell’interconnessione della vita e delle relazioni sociali, trasformando i festival in grandi eventi spirituali, che funzioneranno da centri rigenerativi per i gruppi, i clan e le comunità.

Una volta che le persone cominciano a rispecchiarsi in un contesto spirituale simile, i ruoli e le qualità specifiche degli individui, dei diversi generi e delle diverse generazioni, possono essere visti come una Dea-dono o una Dea-forma, e se ne può trarre guarigione integrandone l’effetto nella vita quotidiana. Si rivelerebbe, di riflesso, l’intero tessuto del clan o della vita comunitaria. Il clan o la struttura comunitaria stessa possono essere rappresentati e celebrati anche in questo modo. L’esito può essere molto illuminante e favorire un processo che aiuta a evidenziare le strutture stesse.

Dovremmo anche trovare un’immagine complessiva affinché la struttura del clan o della comunità – ancora una volta una Dea-dono o una Dea-forma – si possa esprimere nella celebrazione. Una immagine simile o gestalt, concepita come simbolismo matriarcale, tende di per sé a essere integrante. Con un lavoro creativo su questa immagine complessiva si potrebbe dar inizio a una dinamica integrativa all’interno di un clan o una comunità. Non avverrebbe attraverso una discussione teoretico-moralistica, quanto attraverso un gioco creativo.

La storia specifica e il “Volto della Madre Terra locale”

La storia unica e assolutamente irripetibile di ogni matriclan o comunità è così determinante per l’identità dei singoli membri, che dovrebbe essere celebrata sempre con immagini visive e rappresentazioni. I nuovi arrivati, i bambini e le persone che giungono da fuori saranno così in grado di capire meglio il clan o la comunità, se questa viene presentata con scene illustrate. In questo processo, sono specialmente le madri fondatrici a essere onorate, sia che riposino con gli antenati o che siano ancora in vita.

Nel grande festival si rappresenta anche l’economia nei suoi vari aspetti, come la fase del raccolto, che è riconosciuto come un grande dono, o le varie raffigurazioni simboliche dei singoli lavori e professioni.

Il cosmo e la terra, in generale, così come il luogo dove vivono il clan o la comunità – il “Volto della Madre Terra Locale” – sono degni dei festival più elaborati. Sarà perciò difficile connetterci con la terra nello spirito, nell’anima e nel corpo se non la celebriamo raffigurandola nei suoi mutevoli aspetti stagionali, così come fanno i popoli matriarcali. Rappresentandola, la tocchiamo con amore, e con la nostra gradevole e festosa comparsa intensifichiamo la sua bellezza, così come attraverso i festival stessi. Proprio perché siamo parte di lei, parte della terra, diventa visibile a se stessa attraverso i nostri occhi, ed entra nella nostra coscienza quando gioiamo della sua bellezza. Dunque, tramite noi, la natura vede la propria bellezza (come scrive il filosofo Shelling).

Questo è il dialogo con la Dea dentro e intorno a noi. Trasmettere gli effetti di questo dialogo in un re-incanto del mondo è già un altro modo per renderlo nuovamente sacro.

Riflessioni su una società matriarcale moderna

Nei capitoli precedenti ho introdotto il tema delle strutture sociali, della pratica economico-politica e della spiritualità delle società matriarcali. Ho descritto come questi modelli possano essere applicati come microstruttura a clan simbolici di sorelle e fratelli e a nuove comunità creative. Vorrei ora estendere queste riflessioni portandole dal livello comunitario al livello sociale come macrostruttura. E’ l’abbozzo di un nuovo disegno sociale.

In questo abbozzo prendo anche in considerazione i problemi e le difficoltà dell’attuale situazione sociale che il mondo sta affrontando. Culture e sistemi specifici stanno per essere distrutti quotidianamente dalla globalizzazione capitalista e dalle guerre ideologiche, mentre vanno perduti i valori sostenibili, e sempre più persone, specialmente donne, stanno sprofondando nella povertà.

Una questione di misura: il ruolo della regione

Quando pensiamo a una società matriarcale dobbiamo abbandonare i concetti dominanti della società. Per molti di noi, la società significa un insieme di individui diversi, lobby, istituzioni. I gruppi sono in competizione tra loro per il potere dello stato. La “società” si identifica spesso con lo “stato” e oggi molte società sono l’estensione di grandi nazioni, o persino di confederazioni di nazioni o di superpotenze. Il fatto che in questo contesto si valorizzi l’estensione implica un’ideologia patriarcale di dominio, un’idea di espansione e costruzione di impero (globale).

Nel disegno matriarcale, l’estensione di per sé non ha valore. Si preferiscono unità più piccole, poiché permettono un approccio più personale e trasparente. Le unità non devono espandersi al punto che l’individuo diventa incapace di capirne il funzionamento, senza poter partecipare perciò al processo decisionale, come nel caso delle nazioni e delle superpotenze.

D’altra parte, le unità sociali devono essere abbastanza ampie per potersi garantire l’autosussistenza e la varietà degli scambi, delle competenze tecniche, dell’arte. La dimensione regionale è la più appropriata. I confini di una regione non sono arbitrari come quelli di uno stato-nazione, ma sono determinati dal territorio secondo tradizioni profondamente radicate nella cultura. Una regione matriarcale non deve estendersi oltre i propri confini regionali naturali; è un network di villaggi e di piccole città. Non esiste un sistema di graduatorie tra villaggi e città, non c’è governo centrale, né città capitali. Ogni villaggio è la propria piccola repubblica indipendente e ogni regione, in quanto network di villaggi e città, opera autonomamente anche da un punto di vista politico. Un villaggio-repubblica di questo tipo è composto da uno o più matriclan (tradizionali) o simbolici (moderni) che funzionano secondo i modelli che ho descritto sopra. Una città-repubblica è composta da parecchi quartieri, ciascuno dei quali, a turno, funziona come un “villaggio”, quindi, consiste anche di un piccolo numero di matriclan tradizionali o moderni. Questo limita la dimensione della città e garantisce la trasparenza.

Queste “città-villaggio” non hanno niente in comune con le nostre mostruose città metropolitane, dove milioni di individui sradicati, estranei gli uni agli altri e spesso antagonisti, sono costretti a trascorrere le loro vite. Queste città sono veri agglomerati di individui perlopiù isolati, senza differenze tra le persone, che in quanto numeri sono resi disumani e incasellati in piccole abitazioni. Al contrario, una città matriarcale è una struttura ben ordinata, dove i matriclan tradizionali o moderni dei quartieri della città sono collegati politicamente gli uni agli altri,  e  dove  i vicini stessi sono in relazione.

Consenso politico a livello sociale

Il modello del consenso matriaracle coinvolge ogni persona nel processo decisionale e si fonda sull’unanimità del consenso. Questo principio definisce un limite all’estensione della società matriarcale sia tradizionale sia moderna, così come alla struttura del villaggio e a quella della città-repubblica. La politica del consenso si basa sulla prossimità degli individui e sulla trasparenza.

I processi politici effettivi si svolgono all’interno dei matriclan tradizionali o moderni, dove le persone vivono insieme come sorelle e fratelli, e non come estranei in competizione. I processi decisionali si tengono nei matriclan, così come i processi di consultazione, che alla fine di ogni ciclo ritornano alla base, finché non viene raggiunta l’unanimità, estesa poi al villaggio, o città, o regione (come descritto sopra).

E’ evidente che la politica del consenso non è possibile al di fuori di una dimensione regionale. E’ questo il motivo per cui la regione è l’unità politica più grande. Niente dovrebbe eccedere quella dimensione nella scala umana, renderebbe disumani gli individui riducendoli a puri strumenti senza voce, come accade nei nostri enormi stati centralizzati. Se la scala degli umani è limitata e relativamente piccola, c’è una ragione. La megalomania oggi dominante tende a creare inesorabilmente entità sempre più vaste nel mercato capitalista globalizzato. Ma la sua espansione potrebbe essere impedita in quei luoghi dove il “ piccolo” è ristabilito come norma.

La base: l’economia di sussistenza

La regione è anche l’unità economica più grande. Un’economia matriarcale è un’economia di sussistenza che si basa sull’autonomia della produzione locale. La produzione si concentra sulle terre agricole circostanti i villaggi e le piccole città, e viene quindi trasferita nei mercati locali che assicurano il rifornimento di cibo. Questi mercati non sono capitalisti perché nessuno può trarre profitti e, a certi livelli, possono funzionare anche senza denaro. Si collocano all’interno di in un’economia generale del dono della società matriarcale che trova la sua pratica nei festival.

Non solo i villaggi, in quanto insediamenti agrari, forniscono cibo, ma anche le città agrarie dipendono dalle terre agricole dei loro dintorni. La terra coltivata adiacente è limitata, e ciò costituisce un fattore che limita la dimensione delle città. Inoltre, rispetto all’economia, una società matriarcale non può sostenere città enormi che risucchierebbero le zone di campagna degradandole a province povere.

Su scala globale, milioni di persone, specialmente donne, lavorano come giardiniere, contadine, commercianti; ancora oggi sono le donne che praticano l’economia di sussistenza per mantenere le loro famiglie. Questa forma di economia resiste alla commercializzazione dell’agricoltura, guidata dall’agro-business globale e dalle multinazionali del cibo che stanno devastando l’intero territorio. L’economia di sussistenza lavora su piccola scala; lavora intensamente e promuove pratiche agricole su scala umana e non meccanica. Questo è un importante valore ecologico. L’economia di sussistenza è perciò la sola forma di economia che possa mettere fine alla distruzione incontrollata del pianeta.

Ma ciò non significa che tutte le donne debbano essere giardiniere e gli  uomini  contadini. Le varie attività commerciali e i vari mestieri saranno ugualmente praticati, specialmente nelle città. La regione è l’unità di rifornimento più grande; comprende città e villaggi diversi in grado di offrire non solo tutti i tipi di mercanzia artigianale, i prodotti specializzati e i servizi, ma funziona anche da protezione rispetto alle insufficienze locali di cibo.

Il centro etico dell’economia di sussistenza è l’economia del dono, secondo cui tutti i beni sono doni della Madre Terra e, come tali, offerti ai membri dei matriclan. I mercati locali e regionali funzionano solo da centri amministrativi: si collocano nell’economia generale del dono che si pratica nei grandi festival, dove tutti i beni ricavati dai mercati vengono regalati alla comunità. Al contrario, nel capitalismo, l’economia invisibile del dono del lavoro non pagato o mal pagato viene sfruttato dal sistema generale del mercato, tramite le tasse, il debito personale e l’accumulo degli interessi. L’economia del dono invisibile costituisce la base per l’accumulazione dei pochi e, in assenza di quella, il capitalismo non si sosterrebbe. (v. G. Vaughan)

I due generi: la “Doppia Faccia” della società

La società matriarcale tradizionale riconosce che l’umanità è composta da due generi, maschio e femmina. Ne prende atto creando una struttura sociale che si fonda sull’eguaglianza complementare e sul perfetto bilanciamento dei generi. Una società matriarcale moderna si costruisce nello stesso modo. Nessun genere può dominare sull’altro o conformarlo alla propria visione,  e non esistono capi maschi o femmine  che si impossessino delle procedure decisionali personali degli individui. La politica del consenso matriarcale non permette che esista questo dominio. Uomini e donne sono equamente rappresentati in ogni ambito della società. La politica matriarcale ha bisogno della coesistenza degli uomini e delle donne, in quanto delegati eletti a tutti i livelli sociale: clan, villaggio, città e regione. Possono solo agire all’unisono, per questo rappresentano la “Doppia Faccia” della società. Ciò non si applica solo alla sfera sociale, ma a tutti gli ambiti della società, compresi i gruppi economici particolari, come le corporazioni e le organizzazioni commerciali, i circoli dediti alle arti e alle scienze e quelli che rivestono qualifiche particolari, o che possiedono titoli spirituali. Ogni carica è svolta sempre sia dall’uomo sia dalla donna. I rappresentanti si relazionano come sorelle e fratelli, nel senso di “sorelle e fratelli di ‘sibling’ nell’incarico”.

Le donne di un villaggio, città, o regione eleggono le rappresentanti femminili, mentre gli uomini eleggono i rappresentanti maschili, assicurando così un’equa rappresentazione dei generi, che impedisce il formarsi di competizioni negli incarichi.

Come si può vedere, i rappresentanti matriarcali sono semplicemente dei delegati e non delle persone che decidono. Sono selezionati in base alle loro capacità di risolvere i conflitti, creare fiducia e integrare le diversità. I rappresentanti sono conosciuti da tutti ed eletti direttamente. Il bilanciamento dei generi è sempre direttamente monitorato con lo stesso criterio.

Il principio di elezione esclude la formazione di gerarchie che faciliterebbe la conservazione dei ruoli. Il sistema utilizzato non è nemmeno quello della rotazione, che non è altro che l’aspetto più vergognoso della discriminazione, generato dalla paura della gerarchia. Eleggere la persona più competente per un incarico permette più ri-elezioni dello stesso candidato, nella misura in cui le sue capacità personali continuano a essere utili al bene della comunità. La continua dimostrazione delle sue capacità è la prova di questo processo, dal momento che non esistono privilegi.

Spiritualità a livello sociale

La spiritualità matriarcale, così com’è stata descritta sopra, è l’energia connessa a tutte le parti e a tutti gli atti di una società matriarcale tradizionale o moderna. Le sue espressioni vibranti sono i festival, veicolo della visione del mondo e della pratica sociale, che si esprimono attraverso grandiosi rituali e meravigliose cerimonie. La visione del mondo matriarcale non è istituzionalizzata, è libera, ma non arbitraria. Connette tutti attraverso la terra, che porta ogni cosa, e il flusso della vita che tutto permea.

Lo stesso mondo visibile è sacro: la Grande Dea nei suoi innumerevoli aspetti. Accanto ai festival stagionali che tutti celebrano, si terranno le cerimonie particolari di ciascun matriclan, villaggio e città, che si svilupperanno a partire dalle proprie tradizioni particolari, creando così un ricco mosaico di culture locali. Una cultura come questa non può deteriorarsi perché tutti sono attivamente coinvolti nel crearla.

Il mondo spirituale informa tutta la società. La venerazione della Dea Terra dà forma all’economia; nel celebrare la diversità umana si crea la politica. Questi valori si estendono oltre i confini della società matriarcale, cioè oltre i confini della regione. Sebbene la regione sia l’unità più grande per una società di questo tipo, le regioni hanno rapporti molto amichevoli tra loro. Si tratta di connessioni puramente spirituali che possono essere espresse simbolicamente. Per esempio, se una regione nell’emisfero settentrionale crea una connessione di questo tipo nelle quattro direzioni della terra, si chiamerebbe “ Regione del Sole che sorge” (est), “Regione del Sole del mezzogiorno” (sud) , “Regione del Sole che tramonta”(ovest) e “Regione dell’Eterna Stella” (nord). E’ così che si collegano simbolicamente le une alle altre; ora sono “regioni-sorelle”. La connessione è rafforzata dalle visite reciproche e dai festival inter-regionali che mettono in scena l’ordine simbolico. In questi festival ci si scambierà doni; possono essere prodotti specifici o opere d’arte della regione. Si stabilisce, in questo modo, un network orizzontale di regioni, ciascuna delle quali può essere cambiata e ricostruita. E’ quindi ben diverso dal nostro attuale sistema statale gerarchico e centralizzato.

In questi tempi di comunicazione elettronica, le connessioni spirituali non devono essere limitate alle regioni limitrofe, ma possono attraversare paesi e continenti. Perché non dovrebbe essere possibile per una regione matriarcale nelle Americhe avere una regione-sorella in Asia, una in Europa e una in Africa? Non ci sono confini per tali connessioni. Le “visite” saranno più verosimilmente condotte via internet. Per prepararsi a un festival in comune sarebbero necessari lunghi viaggi che renderebbero queste occasioni poco frequenti. Si può invece creare un network mondiale tra le regioni. Un’alleanza simile potrebbe essere considerata uno “stato matriarcale”, o si potrebbe fare a meno di termini e concetti come “nazione”, “stato” e “stati uniti”? Per una società matriarcale moderna, questo, di fatto, è possibile. E’ possibile far esistere un sistema sociale ben regolato e funzionante che si estenda  in tutto il mondo, e che sia completamente privo di stato.

57 anni fa moriva Carl Gustav Jung

«Non sei capace di amare, se non ami te stesso. E questo è veramente un insegnamento cristiano (del vero cristianesimo) . (…) Se riuscirai ad amare te stesso, ti troverai già sulla strada dell’altruismo. Amare se stessi è un compito così difficile e sgradevole che, se riesci a fare una cosa del genere, potrai riuscire ad amare anche i rospi, poiché l’animale più disgustoso è di gran lunga migliore di te.»

(Jung – Seminari sullo Zarathustra di Nietzsche. Vol 1, p. 107)

« […] E’ piuttosto l’incapacità di amare che priva l’uomo delle sue possibilità. Questo mondo è vuoto solo per colui che non sa dirigere la sua libido sulle cose e sugli uomini, e conferir loro a suo talento vita e bellezza. Ciò che dunque ci costringe a creare, traendolo da noi stessi, un surrogato, non è una carenza esterna di oggetti, ma la nostra incapacità di abbracciare con amore una cosa che stia al di fuori di noi.

[…] Mai difficoltà concrete potranno costringere la libido a regredire durevolmente a un punto tale da provocare l’insorgere di una nevrosi. Manca qui il conflitto che è il presupposto di ogni nevrosi.Solo una resistenza, che contrapponga il suo non volere al volere, è in grado di produrre quella regressione che può essere il punto di partenza di un disturbo psicogeno. La resistenza contro l’amore genera l’incapacità all’amore, oppure tal incapacità può operare come resistenza

(C.G. Jung – Simboli della Trasformazione, p.175)

 

No te enamores – Martha Rivera Garrido

 

Non innamorarti di una donna che legge, di una donna che sente troppo, di una donna che scrive…
Non innamorarti di una donna colta, maga, delirante, pazza.
Non innamorarti di una donna che pensa, che sa di sapere e che, inoltre, è capace di volare, di una donna che ha fede in se stessa.
Non innamorarti di una donna che ride o piange mentre fa l’amore, che sa trasformare il suo spirito in carne e, ancor di più, di una donna che ama la poesia (sono loro le più pericolose), o di una donna capace di restare mezz’ora davanti a un quadro o che non sa vivere senza la musica.
Non innamorarti di una donna intensa, ludica, lucida, ribelle, irriverente.
Che non ti capiti mai di innamorarti di una donna così.
Perché quando ti innamori di una donna del genere, che rimanga con te oppure no, che ti ami o no, da una donna così, non si torna indietro.
Mai.

Martha Rivera Garrido

 

Martha Rivera Garrido

II calore: recupero della sacralità nella sessualità di Clarissa Pinkola Estés

C’è un essere che vive nel sottosuolo selvaggio delle nature femminili. Questa creatura è la nostra natura sensoriale, e come tutte le creature complete ha i suoi cicli naturali e nutritivi.
Questo essere è curioso, nel suo porsi in relazione è talvolta esigente, talaltra quiescente. Reagisce agli stimoli concernenti i sensi: la musica, il movimento, il cibo, le bevande, la pace, la quiete, la bellezza, l’oscurità.
Questo è l’aspetto femminile che possiede il calore. Non un calore che si esprime in: «Facciamo del sesso». È piuttosto una sorta di fuoco sotterraneo che talvolta divampa, talaltra lentamente brucia, ciclicamente. Con l’energia che viene liberata, la donna agisce come le pare conveniente. Nella donna, il calore non è uno stato di eccitazione sessuale ma uno stato di intensa consapevolezza sensoriale che include la sua sessualità, ma a essa non si limita.Molto si potrebbe scrivere sugli usi e gli abusi della natura sensoriale femminile e come le donne stesse e altri attizzano il fuoco contro i suoi ritmi naturali o cercano di spegnerlo del
tutto. Concentriamoci invece su un aspetto che è ardente, decisamente selvaggio, emanante un calore che ci riscalda di un sentimento buono. Nelle donne moderne questa espressione sensoriale ha goduto di una brevissima libertà prima della condanna; in molti luoghi ed epoche è stata assolutamente bandita.

C’è un aspetto della sessualità femminile che nei tempi antichi veniva detto oscenità sacra, non nel senso che ha assunto oggi la parola, ma inteso come saggezza e intelligenza nella sessualità.
C’erano un tempo culti dedicati alla sessualità femminile irriverente, che non erano dispregiativi ma intesi a ritrarre parti dell’inconscio che rimangono tuttora misteriose e sconosciute.

L’idea stessa della sacralità della sessualità, e più specificamente dell’oscenità, quale aspetto della sua sacralità, è essenziale per la natura selvaggia. Nelle antiche culture matriarcali esistevano dee dell’oscenità, così chiamate per la loro lascivia innocente quanto scaltra. Tuttavia il linguaggio rende ormai assai difficile comprendere le «dee oscene» senza connotati volgari. Ecco dunque che cosa significa l’aggettivo osceno e altri termini correlati.
Da questi significati, immagino potrete capire come mai questo aspetto dell’antico culto delle dee fu sospinto in meandri sotterranei.
Desidero riprendere queste due definizioni date dal vocabolario affinché possiate trarre le vostre conclusioni.
Sporco: dal latino spurcus. Non pulito, macchiato di materia sudicia; fìg.: disonesto, turpe, osceno: coscienza sporca, parole sporche, azione sporca»
Osceno: dal latino obscenus, che offende gravemente il pudore: scritti osceni; fìg.: di cosa, bruttissima: ovvero, dall’antico ebraico, Ob, che significa maga, strega.

A dispetto di tanta denigrazione, restano frammenti di storie nella cultura che sono sopravvissuti a svariate purghe. Ci informano che l’osceno non è affatto volgare, ma assomiglia piuttosto a una creatura fantastica che vorreste avere tra le vostre migliori amiche.Alcuni anni fa, quando presi a raccontare «storie delle Dee sporcaccione», le donne sorridevano, poi si mettevano a ridere sentendo narrare gli exploits delle donne, reali e mitologiche, che avevano usato la sessualità, la sensualità, per ottenere qualcosa, affermarsi, alleviare la tristezza, sollecitare il riso, rimettendo così a posto qualcosa che era andata storta. Fui anche colpita da come le donne passavano al riso: prima dovevano mettere da parte tutta la loro educazione, secondo cui non era da vere signore.
Vidi che questo «comportamento da signore» in realtà, al momento sbagliato, soffocava le donne invece di farle respirare liberamente. Per ridere bisogna espirare e inspirare in rapida successione. Sappiamo dalla chinesiologia e dalle terapie come l’Hakomi che con la respirazione profonda sentiamo le nostre emozioni, mentre quando non desideriamo sentire, smettiamo di respirare, tratteniamo il respiro.
Nel riso, la donna può cominciare a respirare davvero, e cominciare quindi a sentire sensazioni non autorizzate. Ma quali sensazioni? Non tanto di sollievo, né di conforto, quanto di apertura a lacrime trattenute o a memorie dimenticate, o la rottura delle catene messe alla personalità sensuale.Mi fu chiaro che l’importanza di queste antiche dee dell’oscenità stava nella loro capacità di allentare ciò che era troppo stretto, di bandire la malinconia, di comunicare al corpo un umore che non appartiene all’intelletto ma al corpo medesimo, di mantenere liberi questi passaggi. È
il corpo che ride per le storie dei lupi delle praterie, di zio Trungpa, per le battute di Mae West, e così via.
Le dee dell’oscenità producono una forma vitale di medicina neurologica ed endocrina che si diffonde nel corpo.Ecco dunque tre storie che rappresentano l’osceno nel senso del termine da noi impiegato, nel senso di una sorta di incanto sessuale/sensuale che produce una bella sensazione emotiva. Sono tutte e tre istruttive per le donne. Due sono antiche, una è moderna, e parlano delle dee sporcaccione. Le chiamo così perché a lungo hanno vagato sotto terra. Nel senso positivo, appartengono alla terra fertile, al fango, al concime della psiche, la sostanza creativa da cui tutte le arti traggono origine. In effetti, rappresentano quell’aspetto della Donna Selvaggia che è nel contempo sessuale e sacro.

Baubo: la Dea panciuta

Esiste un modo di dire assai efficace: Dice entre las piernas, parla con quel che ha tra le gambe. Storie «tra-le-gambe» si ritrovano in tutto il mondo. Una è la storia di Baubo, una dea dell’antica Grecia, la cosiddetta «dea dell’oscenità». Ha nomi più antichi, come Iambe, ed evidentemente i greci la ripresero da ben più antiche culture. Sono esistite dee archetipe selvagge della sessualità sacra e della fertilità Vita/Morte/Vita fin dall’inizio dei tempi.

Un unico riferimento a Baubo negli scritti a noi pervenuti dall’antichità fa pensare che il suo culto venne distrutto e sepolto sotto lo scompiglio delle varie conquiste. Sento che da qualche parte, forse sotto le colline silvane o i laghi nascosti tra i boschi in Europa e in Oriente, esistono templi a lei dedicati, con tanto di icone ossee.
Non è dunque un caso se pochissimi hanno sentito parlare di Baubo, ma ricordate che basta un coccio per ricostruire l’insieme. In questo caso il coccio esiste, perché è arrivata a noi una storia in cui compare Baubo. È una delle divinità più amabili e picaresche che abbiano abitato l’Olimpo. Questa è la mia cantadora, la versione basata sull’antico selvaggio frammento di Baubo che ancora occhieggia nei miti greci dopo l’epoca matriarcale e negli inni omerici.

Demetra, la dea materna della Terra, aveva una bellissima figlia di nome Persefone, che un giorno giocava all’aperto. Persefone vide a un tratto un fiore particolarmente bello, e allungò le mani per coglierlo. D’improvviso la terra prese a tremare e si aprì una profonda voragine. Dalle profondità della terra emerse Ade, il dio degli Inferi. Alto e possente, stava ritto su un carro nero tirato da quattro cavalli del colore dei fantasmi.

Ade rapì Persefone sul suo carro, e lanciò i cavalli giù nelle profondità della terra. Le urla di Persefone si fecero sempre più flebili a mano a meno che si richiudeva la voragine sulla terra, come nulla fosse mai accaduto. Sulla terra regnò il silenzio, e si diffuse il profumo dei fiori calpestati. E la voce della fanciulla risuonò attraverso le pietre delle montagne, gorgogliò tra le onde del mare. Demetra udì le pietre urlare. Udì le acque urlare. E strappandosi il serto dalla chioma immortale, e spogliandosi degli scuri veli, prese a volare sulla terra come un grande uccello, alla ricerca di sua figlia, chiamandola a gran voce.
Quella notte una vecchia seduta al limitare di una caverna disse alle sorelle di aver udito tre grida quel giorno: una era una giovane voce che urlava di terrore, l’altra chiamava lamentosamente, e la terza era di una madre in lacrime.

Persefone non si ritrovava, e iniziò così la lunga folle ricerca di Demetra della figlia tanto amata. Demetra si infuriò, pianse, urlò, cercò indizi e frugò dentro, sotto, sopra ogni rialzo della terra, implorò compassione, implorò la morte, ma non riuscì a trovare l’amata figlia.

Allora, lei che aveva fatto crescere ogni cosa per l’eternità, maledisse tutti i campi fertili del mondo, urlando nell’afflizione:
«Morite! Morite! Morite!» 
Per via della maledizione di Demetra, nessun bambino poteva nascere, non poteva crescere il grano per il nutrimento, né potevano sbocciare fiori per le feste o crescere rami d’albero per i morti. Tutto era appassito e inaridito sulla terra riarsa.

Demetra non si era più bagnata, e le sue vesti erano tutte infangate e i capelli arruffati. Nel suo cuore la pena vacillava, ma non si sarebbe arresa. Dopo tante domande, preghiere, avventure che non avevano portato a nulla, cadde infine accanto a un pozzo in un villaggio in cui nessuno la conosceva. E appoggiò il corpo dolente contro la pietra fredda del pozzo, e in quel mentre sopraggiunse una donna, o piuttosto una specie di donna. E questa donna si mise a danzare davanti a Demetra dimenando i fianchi in un modo che ricordava il rapporto sessuale, e scuotendo i seni nella danza. E vedendola Demetra non potè trattenere un lieve riso.

La femmina ballerina era davvero magica, perché non aveva testa, e i capezzoli erano i suoi occhi e la vagina la sua bocca.
Con questa amabile bocca prese a intrattenere Demetra con storielle piccanti. Demetra cominciò a sorridere, poi ridacchiò, poi esplose in una fragorosa risata. E insieme risero le due donne, la piccola Baubo e la potente Demetra.

E fu proprio questo riso che trasse Demetra dalla depressione e le diede l’energia necessaria per continuare la ricerca della figlia; con l’aiuto di Baubo, della vecchia Ecate e di Elio, il Sole, la ricerca ebbe buon esito. Persefone fu restituita alla madre. Il mondo, la terra e il ventre delle donne ripresero a fiorire.
Ho sempre amato la piccola Baubo più di qualsiasi altra dea della mitologia greca, forse di qualunque altro personaggio, qualsiasi epoca.
Indubbiamente discende dalle panciute dee neolitiche, misteriose figure senza testa, e talvolta senza piedi e senza braccia. Dire che sono immagini della fertilità non basta, sono
molto di più. Sono i talismani del parlare femminile, di quel che mai e poi mai una donna direbbe in presenza di un uomo, se non in circostanze assolutamente insolite.

Rappresentano sensibilità ed espressioni uniche nel mondo; i seni, e quanto si sente dentro a queste sensibili creature, le labbra della vagina, in cui una donna prova sensazioni che altri potrebbero immaginare ma solo lei conosce. E il riso che scuote il ventre è una delle migliori medicine che una donna possa ricevere.

Ho sempre pensato che il tè delle signore non sia che un resto di un antico rituale femminile, per stare insieme, e poter parlare con le viscere, dire la verità, ridere a crepapelle, sentirsi rianimate, e poi tornare a casa, dove tutto va meglio.

Talvolta è difficile allontanare gli uomini, affinchè le donne possano restare da sole. So soltanto che un tempo le donne invitavano gli uomini ad «andare a pesca». È un’astuzia cui le donne ricorrono da tempi immemorabili, questa di allontanare gli uomini per un po’, per restare per conto proprio e insieme alle altre.
Di tanto in tanto le donne desiderano vivere in un’atmosfera squisitamente femminile, in solitudine o in compagnia. È un ciclo femminile naturale.

L’energia maschile è bella, addirittura sontuosa, grandiosa. Ma talvolta è come mangiare troppi cioccolatini. Per qualche giorno vorremmo mangiare solo del riso in bianco e bere brodo leggero per ripulire il palato. Di tanto in tanto dobbiamo farlo.

Inoltre, la piccola dea panciuta Baubo ci offre l’interessante idea che un po’ di oscenità aiuta a vincere la depressione. Ed è vero che certe risate, provocate da tutte quelle vecchie storie che le donne si raccontano, quelle storie di donne così incolori da essere completamente insapori… quelle storie rimescolano la libido. Riattizzano il fuoco dell’interesse per la vita.

Nel vostro tesoro ritrovato, mettete queste storielle sporche, storie del tipo di Baubo, storie minori che sono una potente medicina, Le storielle «sporche» non soltanto alleviano la depressione ma possono far svanire la collera, lasciando una donna più contenta di prima. Provate e vedrete.

Non posso dire molto di più sugli altri due aspetti della storia di Baubo, perché vanno discussi in piccoli gruppi e soltanto tra donne, ma posso dire questo: Baubo presenta un altro aspetto,
cioè vede con i capezzoli. Per gli uomini è un mistero, ma durante i workshop le donne annuiscono entusiaste e affermano: «So benissimo che cosa intendi!»

Vedere con i capezzoli è sicuramente un attributo sensoriale. I capezzoli sono organi psichici, reagiscono alla temperatura, alla paura, alla collera, al rumore. Sono un organo dei sensi quanto gli occhi.

Quel «parlare con la vagina» è, simbolicamente, parlare con la prima materia, il più fondamentale, sincero livello di verità – la os vitale. Che altro aggiungere se non che Baubo parla dal filone materno, dalla miniera profonda, letteralmente dalle profondità.
Nella storia di Demetra alla ricerca di sua figlia nessuno sa che cosa Baubo dica davvero a Demetra, ma qualche idea in proposito possiamo averla.


Dick, il Lupo delle Praterie

Le storielle che Baubo racconta a Demetra saranno probabilmente state facezie femminili su quei trasmettitori e ricettori mirabilmente modellati che sono i genitali. Se così fosse, forse Baubo raccontò a Demetra una storia come questa, che ho sentito raccontare anni or sono da un vecchio posteggiatore di Nogales.
Si chiamava Oid Red, e rivendicava sangue indigeno.

Non si era messo la dentiera, e da un paio di giorni non si radeva. La sua simpatica vecchia moglie, Willowdean, aveva un volto grazioso ma rovinato. Una volta, mi raccontò, nel corso di una rissa al bar, le avevano rotto il naso. Possedeva tre Cadillac, nessuna delle quali funzionava. Lei aveva un Chihuahua che teneva in un box per bambini in cucina. Lui era il tipo che tiene il cappello in testa anche al cesso.

Ero in giro a raccogliere storie, e con la mia roulotte ero arrivata ai loro terreni. «Conoscete per caso storie di queste parti?» esordii, intendendo la zona e i dintorni.

Oid Red guardò la moglie maliziosamente, con un sorrisetto provocatorio: «Le racconterò di Dick il Lupo delle Praterie».
«Red, non stare a raccontarle questa storia. Red, tu non gliela racconti proprio.»
«E io invece le racconto la storia di Dick il Lupo delle Praterie»
, asserì Old Red.

Willowdean si prese la testa tra le mani e disse, come parlando al muro: «Non raccontarle quella storia, Red. Dico sul serio».
«Gliela racconto subito, Willowdean.»
Willowdean sedeva sul bordo della sedia, con una mano sugli occhi come fosse improvvisamente diventata cieca.
Ecco cosa mi raccontò Oid Red. Disse di aver sentito questa storia «da un vecchio navajo che l’aveva sentita da un messicano che l’aveva sentita da uno hopi».

C’era una volta Dick il Lupo delle Praterie, ed era la creatura più affascinante e più stupida nel contempo che uno possa mai sperare d’incontrare. Aveva sempre fame di qualcosa, e sempre giocava qualche tiro a qualcuno per ottenere quello che voleva, e il resto del tempo dormiva.

Un bel giorno, mentre Dick il Lupo della Prateria dormiva, il suo pene si stufò proprio, e decise di abbandonare Dick e vivere un’avventura per conto suo. Così il pene si staccò da Dick il Lupo delle Praterie e si avviò per la sua strada. Più che altro andava saltellando, perché aveva una gamba sola.
Saltellando saltellando se ne andava tutto contento e dalla strada saltò nel bosco dove – Oh no! – finì dritto in un mucchio di aghi pungenti. 
«Ahi!»
 urlò. «Ahiiii!» strillò. «Aiuto! Aiuto!»
Tutte quelle urla risvegliarono Dick il Lupo delle Praterie, e quando abbassò la mano per rallegrarsi con la solita manovra, quello non c’era più! Dick il Lupo delle Praterie corse giù per la strada tenendosi tra le gambe, e alla fine arrivò dov’era il suo pene, nel peggior stato che possiate immaginare. Delicatamente Dick sollevò il suo avventuroso pene dagli aghi, lo accarezzò e lo blandì, e lo rimise al posto giusto.Old Red rideva come un pazzo, tossendo, strabuzzando gli occhi e tutto il resto. «E questa è la storia del vecchio Dick il Lupo delle Praterie.»
Willowdean lo ammonì: «Ti sei dimenticato di raccontarle il finale».
«Quale finale? Gliel’ho già raccontato il finale»
, borbottò Old Red.
«Ti sei dimenticato di raccontarle il vero finale della storia, vecchio bidone.»
«Allora, se tè lo ricordi tanto bene, raccontaglielo tu.» Suonarono alla porta e lui si alzò dalla sedia cigolante.

Willowdean mi fissò con gli occhi che le brillavano: «La fine della storia è la morale».
In quell’istante Baubo s’impossessò di Willowdean, perché cominciò con risatine soffocate, poi sghignazzò per poi esplodere in una fragorosa risata, e tanto a lungo rise che le vennero le lacrime agli occhi, e le ci vollero un paio di minuti per dire queste due frasi, ripetendo ogni parola due o tre volte tra un sussulto e un altro.

«La morale è che quegli aghi, anche quando Dick li ebbe tolti, continuarono a pungergli il coso, da diventar matti. Ecco perché gli uomini scivolano contro le donne, e si strofinano con quello sguardo negli occhi che dice: ‘Ho un tale prurito’. Sai, quel cazzo universale prude sempre da quella prima volta che è corso via.»

Ora non saprei proprio dire che cosa mi colpì, so soltanto che lì nella sua cucina abbiamo riso tanto da perdere il controllo dei muscoli. Mi rimase poi una sensazione speciale, come di aver mangiato un bel pezzo di rafano.

È il genere di storia che secondo me raccontò Baubo. Il suo repertorio comprende tutte quelle che fanno ridere così le donne, senza trattenersi, e non importa se si vedono le tonsille, se il ventre sporge e il seno ballonzola. C’è qualcosa di speciale nella risata sul sesso. La risata «sessuale» pare raggiungere le profondità della psiche, scuotendo tutto quanto è sciolto, giocando sulle ossa, facendo scorrere in tutto il corpo una sensazione deliziosa. È una forma di piacere selvaggio che appartiene al repertorio psichico di ogni donna.
Il sacro e il sensuale/sessuale vivono vicinissimi nella psiche, poiché sono proposti all’attenzione da un senso di meraviglia e non dall’intellettualizzazione ma dall’esperienza di qualcosa che attraversa i sentieri fisici del corpo, qualcosa che per un attimo o per sempre, che si tratti di un bacio, di una visione, di una risata o altro ancora, ci tramuta, ci riscuote, ci solleva su una vetta, appiana le nostre rughe, rende il nostro passo danzante, ci fa provare un’esplosione di vita.
Nel sacro, nell’osceno, nel sessuale c’è sempre una risata selvaggia in attesa, un breve passaggio di riso silente, o la risata di una vecchia, o il respiro affannoso che è riso, o il riso che è selvaggio e animalesco, o il trillo che è come una scala musicale. Il riso è un lato nascosto della sessualità femminile; è fisico, elementare, appassionato, vitalizzante e pertanto eccitante. È una sessualità senza scopo, a differenza dell” eccitazione genitale. È una sessualità della gioia, per un istante appena, un vero amore sensuale che vola libero e vive e muore e di nuovo vive della sua propria energia. È sacro perché è così salutare. È sensuale perché risveglia il corpo e le emozioni. È sessuale perché è eccitante e provoca ondate di piacere. Non è unidimensionale, perché il riso si spartisce con se stessi e con tanti altri. È la sessualità più selvaggia nella donna.

Ecco ora un’altra storia di donne e di dee sporcaccione. La sentii quand’ero piccola. È sorprendente la quantità di cose che i bambini sentono quando, secondo gli adulti, non ascoltano.
Un viaggio in Ruanda

Avevo circa dodici anni, e ci trovavamo a Big Bass Lake, nel Michigan. Dopo aver preparato la colazione e il pranzo per quaranta persone, tutte le mie simpatiche parenti, mia madre e le zie, se ne stavano al sole sdraiate su delle chaise longue, a chiacchierare e scherzare. Gli uomini erano «a pesca», cioè se la spassavano per conto loro, raccontandosi le loro storielle e le loro barzellette. Io giocavo per conto mio, abbastanza vicina alle donne.

D’improvviso udii delle urla acute, e corsi allarmata dove si trovavano le donne. Ma non urlavano di dolore. Ridevano, e una mia zia continuava a ripetere, quando riusciva a prender fiato, «si coprirono la faccia… si coprirono la faccia!» E questa frase misteriosa scatenava le loro risate.
A lungo continuarono a urlare, a ridere, a restare senza fiato. Una mia zia aveva una rivista appoggiata sulle gambe. Quando molto più tardi le donne si appisolarono al sole, feci scivolare la rivista giù dalle gambe della zia e sdraiata sotto la chaise longue mi misi a leggere con grande curiosità. Riportava un aneddoto della seconda guerra mondiale.

Il generale Eisenhower stava per visitare le sue truppe nel Ruanda. (Avrebbero potuto essere nel Borneo, e il generale avrebbe potuto essere MacArthur. Ai tempi i nomi significavano ben poco per me.) Il governatore voleva che le indigene si ponessero ai lati della strada e si sbracciassero e dessero il benvenuto a Eisenhower mentre passava sulla jeep. L’unico problema era che le indigene non indossava mai altro che una collanina di perle, e qualche volta una sorta di cintura.
No, non andava per niente bene. Così il governatore convocò il capo tribù e gli espose il problema. «Non ti preoccupare», disse il capo della tribù. Se il governatore fosse riuscito a fornire parecchie decine di gonne e camicette, si sarebbe preoccupato lui di farle indossare alle donne per quella speciale circostanza. E il governatore e i missionari del luogo si diedero un gran daffare per fornire quanto richiesto.

Tuttavia, il giorno della grande parata, e pochi minuti prima che Eisenhower, come previsto, passasse sulla sua jeep, si scoprì che, mentre tutte le indigene avevano diligentemente indossato le gonne, non si erano messe le camicette, e per giunta le avevano lasciate a casa. Così se ne stavano lungo i due lati della strada a petto nudo, con le gonne e nient’altro addosso.
Al governatore venne un colpo quando fu informato della cosa, e immediatamente convocò il capo tribù. Questi gli assicurò che la donna più importante della tribù, quando aveva conferito con lui, gli aveva confermato che tutte erano pronte a coprirsi il petto al passaggio del generale. «Sei proprio sicuro?» urlò il governatore. «Sicuro, sicurissimo», rispose il capo tribù.

Non c’era più tempo per discutere, e possiamo soltanto immaginare la reazione del generale Eisenhower quando arrivò sulla sua jeep e vide una donna dopo l’altra, a seno nudo, tirar su la gonna per coprirsi la faccia.

Me ne stavo sotto la sedia cercando di soffocare la mia risata.
Era la storia più stupida che avessi mai sentito. Era una storia stupenda, un vero thriller. Ma a intuito mi rendevo anche conto che era proibita, e così per anni e anni la tenni per me. E talvolta, in momenti di difficoltà, di tensione, magari prima di dare un esame all’università, pensavo alle donne del Ruanda che si coprivano la faccia con le gonne, e indubbiamente se la ridevano. E ridevo, mi sentivo concentrata, forte, coi piedi sulla terra.

Questo indubbiamente è l’altro dono degli scherzi e del riso delle donne. Diventa un’ottima medicina per i tempi duri, un corroborante nella convalescenza. Possiamo pensare al sessuale e all’irriverente come a qualcosa di sacro?
Sì, specie quando sono medicine.

Jung osservò che se qualcuno arrivava nel suo studio lamentandosi di un problema sessuale, il problema vero era spesso più che altro dello spirito e dell’anima. Quando una persona
parlava di un problema spirituale, spesso in realtà si trattava di un problema di natura sessuale.

In tale senso, la sessualità può essere foggiata come una medicina per lo spirito, ed è pertanto sacra. Quando il riso aiuta senza far danno, quando rischiara, riallinea, riordina, riasserisce potere e forze, quel riso porta salute. Quando il riso rende le persone contente di essere al mondo, più consapevoli dell’amore e dell’eros, quando allevia la tristezza e vince la collera, allora è sacro.

Nell’archetipo della Donna Selvaggia, c’è molto spazio per la natura delle dee sporcaccione. Nella natura selvaggia, il sacro e l’irriverente, il sacro e il sessuale non sono separati ma vivono insieme come, immagino io, un gruppo di vecchissime donne ai bordi della strada in attesa del nostro passaggio. Sono nella vostra psiche, vi attendono per mostrarsi, e intanto si raccontano le loro storie e ridono come pazze.

Tratto da “Donne che corrono coi lupi” di Clarissa Pinkola Estés, Frassinelli 1993 

Breve antologia filosofico-letteraria su amore nel mondo antico — Scorribande Filosofiche

Esiodo – daTeogonia (vv. 116-122, 191-206) Dunque per primo fu Caos, e poi Gaia dall’ampio petto, sede sicura per sempre di tutti gli immortali che tengono la vetta nevosa d’Olimpo, e Tartaro nebbioso nei recessi della terra dalle ampie strade, poi Eros, il più bello fra gli immortali, che rompe le membra, e di tutti […]

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