Antica Roma. La prostituzione.

Roma prevedeva tutta una serie di leggi per regolamentare la prostituzione. I lupanara dovevano essere aperti solo di sera e collocati solo fuori città. Le prostitute dovevano essere registrate e non potevano mantenere il nome di famiglia. Giovenale racconta che Messalina frequentava i postribula, travestita e sotto falso nome (Lycisca). Le prostitute dovevano farsi riconoscere indossando una veste speciale e rinunciare alle bende che le matrone oneste mettevano sui capelli. Il fenomeno della prostituzione si andava sempre più espandendo e ci fu chi prese la palla al balzo per rimpinguare le casse dello stato, infatti Caligola introdusse una tassa per chi praticava questa “professione”.

 Il termine lupanare viene da “lupa”, il nome con cui venivano chiamate le meretrici; anche la mitologia romana dice che gli stessi fondatori di Roma, Romolo e Remo erano stati adottati da una “lupa”, nome ambiguo, infatti Acca Laurentia la moglie del pastore che li aveva trovati era una “lupa” cioè prostituta; altri nomi ancora oggi conosciuti sono “puttana” dal latino putere, puzzare e “troia” altra radice dispregiativa che fa riferimento alle femmine del maiale e quindi “troiaio”, porcile, il luogo fetido e sporco dove stavano le prostitute.

Grande sviluppo alla prostituzione fu dato dall’avvento del culto della Venere Ericina che differentemente dall’antico culto dell’antica Venere tutta castità praticato fino a quel momento era caratterizzato da una spiccato portamento verso la sessualità. Il culto della Venere Ericina venne importato a Roma dalla Sicilia per propiziarsi i suoi favori in vista dell’ attacco a Cartagine durante la seconda guerra punica, infatti, la Sicilia era il punto di partenza della spedizione romana; ma la particolarità consisteva nel fatto che le cerimonie propiziatorie alla dea erano gestite da sacerdotesse che praticavano la prostituzione rituale, tutto questo rappresentò una sorta di permesso ad intraprendere la “professione”. Successivamente vennero fatti vari tentativi di restaurare la versione casta della dea, ma ormai la Venere siciliana aveva preso il sopravvento fino a diventare addirittura simbolo di fecondità, fertilità e successo.

 Alla fine dell’epoca repubblicana la situazione a Roma si era talmente ingigantita che il fenomeno della prostituzione era diffuso in ogni angolo della città. Nel Satyricon si racconta che Encolpio dopo essersi perso per le vie di Roma chiede indicazioni ad una vecchietta la quale essendo però una procacciatrice di clienti lo accompagna direttamente in un bordello. La diffusione della pratica dell’amore mercenario e la mancanza di adeguate norme di igiene, favorì il propagarsi delle malattie sessuali; il medico romano Celso, riferendosi quasi certamente alla Gonorrea o Scolo descrive una malattia dell’epoca in questi termini:” La regione sessuale va soggetta ad una malattia che é un flusso di semenza, che senza stimolazione erotica, senza visioni notturne, esce con abbondanza tale da far morire il paziente dopo un certo tempo, per consunzione.”; Quinto Sereno descrivendo alcune ulcerazioni sui genitali dice: ” strane piaghe ulceranti deturpano fortemente ed in modo orribile le parti genitali, esse si possono curare con i rami di rovo.”; Marziale riferendosi presumibilmente alla sifilide: ” Una malattia vergognosa ha distrutto la ghiotta parte.”, mentre sia Celso che Plinio fanno riferimento ai Condylomata, malattie di trasmissione sessuale oggi conosciute come Condilomi o Creste di gallo. A parte tutto , i Romani apprezzavano molto l’amore a pagamento, ciò é dimostrato dal fatto che Domiziano, per attirarsi le grazie del popolo, durante i festeggiamenti per la vittoria riportata sui Germani, fece lanciare i gettoni per una “consumazione” nei lupanari.