Le Donne nella Storia Letteraria Italiana (Parte I)

di Gioia Guarducci

tratto da L’Alfiere, rivista letteraria della “Accademia V.Alfieri” di Firenze

Nelle conversazioni tra amici, che, come me, si dilettano di letteratura, ci siamo spesso chiesti quanta parte abbia avuto la donna nella storia letteraria italiana dalle origini fino ai giorni nostri. Se andiamo con la mente ai ricordi scolastici dobbiamo constatare che pochissimi nomi femminili tornano alla memoria, anzi tra i “Grandi” proprio nessuno.
D’altronde, in epoche in cui (salvo poche classi privilegiate) si faticava a mettere insieme il pranzo con la cena, la cultura o anche il solo saper “leggere e scrivere” era patrimonio di pochi uomini, e dico proprio “uomini” perché alle donne, eccetto rare eccezioni, non veniva fornita una educazione letteraria.

Ciò nonostante mi sono accinta, per pura curiosità intellettuale, a sfogliare con puntigliosa diligenza sia la Storia della Letteratura Italiana sia le più usate Antologie dei nostri Licei.
Vuoi vedere, mi sono detta, che non si trovi almeno tra gli autori “minori” qualche nome femminile?
Invece proprio all’inizio della mia ricerca, per buon viatico, mi sono imbattuta in un testo del XII secolo, molto diffuso all’epoca, dall’emblematico titolo “Proverbi sulla natura delle donne“.
E’ questo un poemetto (in quartine monorime di versi alessandrini) che, con intento didascalico e accusatorio, getta discredito su tutte quante le donne, da Eva alla Marchesa di Monferrato, non risparmiando fanciulle o maritate e neppure … le monache!
Il tono intimidatorio usato dall’autore non favoriva all’epoca qualche poveretta, che avesse avuto in animo di metter mano alla penna!
Proseguendo nella mia indagine ho visto che i primi documenti in lingua italiana trattano di argomenti, che forse poco si addicevano all’indole femminile: poemi di natura allegorica o didascalica, poemi epici, invettive politiche, canti goliardici.
Ci sono anche inni o laudi di carattere religioso, ma forse se qualche donna pur ne avesse composti non avrebbe trovato il coraggio, né il modo di pubblicizzarli.

La poesia d’amore, tema più congeniale all’animo femminile, ebbe inizio in Italia su imitazione della poesia Provenzale ed acquisì vera indipendenza letteraria con i poeti della Scuola Siciliana.
Mentre, però, in Provenza la presenza di poetesse non è del tutto ignota, qui da noi non se ne trova traccia.

Unica eccezione, nel 1200, si ha con una poetessa fiorentina, che conosciamo sotto lo pseudonimo di:

– COMPIUTA DONZELLA (Significativo è l’uso di un nome d’arte in un’epoca in cui nessun poeta riteneva opportuno di doversi celare!).
Di lei, vissuta nel XIII secolo, rimangono solo tre aggraziati sonetti di stile siciliano-provenzaleggiante.
Il più noto dei tre è il seguente:

A la stagion che ‘l mondo foglia e fiora
acresce gioia a tutti i fin’ amanti:
vanno insieme a li giardini alora
che gli auscelletti fanno dolzi canti;

la franca gente tutta s’inamora,
e di servir ciascun tragges’ inanti,
ed ogni damigella in gioi’ dimora;
e me, n’abondan marrimenti e pianti.

Ca lo mio padre m’ha messa ‘n errore,
e tenemi sovente in forte doglia:
donar mi vole a mia forza segnore

ed io di ciò non ho disio né voglia,
e in gran tormento vivo a tutte l’ore;
però non mi ralegra fior né foglia.

Di questi versi il critico A. Momigliano dice: “L’ultima terzina è di una sobrietà da vero poeta; e tutto il sonetto adombra in poche linee di misurata tristezza il dramma di un’anima raccolta e pensosa”.

Con l’avvento del Dolce Stil Novo, la donna crebbe d’importanza, non tanto come autrice di versi, ma in quanto simbolo di gentilezza e di virtù, sorgente di purificazione spirituale, mezzo per elevarsi fino a Dio.
In questa stessa epoca non mancarono comunque rimatori realistici, che attraverso versi di eredità giullaresca, ignorando il modello della “donna angelicata”, cantarono la donna fatta di carne ed ossa, l’amore fisico, il gioco da taverna e la febbre dei sensi.
Ad ogni modo è da allora che la donna, venerata come angelo o desiderata solo come oggetto di brama sensuale, entra in qualche modo nel mondo della poesia.

Dobbiamo, però, arrivare alla seconda metà del XIV secolo per trovare una presenza femminile tra gli autori di cui ci è stato tramandato il nome e l’opera.
Tra gli scrittori a carattere religioso spicca una giovane donna, destinata a esser presto canonizzata:

– CATERINA DA SIENA (1347-1380), con le LettereIl Dialogo della Divina Provvidenza.
Secondo la critica letteraria, però, questi scritti, pur pieni di fervore apostolico e di enfasi mistica, non raggiungono un vero valore letterario, non avendo né il tono distaccato della confessione poetica, né il rigore di un assunto filosofico.

Successivamente nel XV secolo, nella Firenze Medicea, troviamo tra gli scrittori di sacre rappresentazioni

– ANTONIA GIANNOTTI PULCI con la sua Santa Guglielma, un esempio di teatro devoto, in cui sono inseriti molti elementi romanzeschi.
Ella andò sposa nel 1470 a Bernardo, fratello del poeta Luigi Pulci, autore del famoso poema eroicomico Morgante. E’ quindi lecito supporre che la sua notorietà sia dovuta almeno in parte al fatto di essere una nobile fiorentina con libero accesso alla corte di Lorenzo il Magnifico.

Sempre del XV secolo è:

– ALESSANDRA MACINGHI STROZZI ( Firenze 1407-1471), vedova di Matteo, nobile del casato degli Strozzi, che fu esiliato con i figli per ragioni politiche. Di lei, nel carteggio degli Strozzi, ora nell’Archivio di Stato di Firenze, sono state tramandate le Lettere ai figliuoli esuli. Queste sono lettere spontanee, scritte con l’immediatezza del parlare familiare, piene di buoni sentimenti e di tenerezza, ma prive di un qualsivoglia intento letterario.

Agli inizi del secolo XVI viene citata:

– TULLIA D’ARAGONA (1508-1556), una cortigiana, che, nata a Roma, visse in varie città italiane. Di lei abbiamo eleganti Rime di ispirazione amorosa secondo i canoni petrarcheschi e l’opera Dialogo della infinità di amore. Quest’ultimo è da alcuni critici attribuito a Benedetto Varchi, (forse perché scritto troppo bene per essere opera di una donna?)

Nel 1559 Ludovico Domenichi pubblica a Lucca il libro “Rime diverse di alcune nobilissime e virtuosissime donne“. Questo avvenimento ci fa capire che, in un’epoca divenuta più colta e più libera, molte furono le donne, che coltivarono la poesia.

La critica letteraria non è, devo dire, molto favorevole nel giudicarle, almeno secondo il giudizio di studiosi come il nostro contemporaneo Natalino Sapegno, che scrive testualmente: “All’insegnamento petrarchesco si attengono come ad utile freno, pur nella loro naturale tendenza all’effusione immediata e disordinata del sentimento, le moltissime rimatrici del tempo”.

Penso, comunque, sia doveroso ricordare qui i nomi delle poetesse, che ho trovato riportati nei libri di letteratura ad uso delle scuole:

– BARBARA TORELLI STROZZI (1475-1533), gentildonna parmense, cui viene attribuito un unico sonetto sulla morte del secondo marito Ercole Strozzi, assassinato pochi giorni dopo le nozze. E’ un sonetto molto ammirato per il vigore realistico, tuttavia, proprio per questo, recentemente la critica lo ha attribuito al poeta ferrarese Girolamo Baruffaldi.

– VERONICA GAMBARA (1485-1551), contessa bresciana, che andò sposa a Gilberto, signore di Correggio. Rimasta vedova a soli 28 anni resse con fermezza il governo del suo staterello.
Scrisse rime aderenti al linguaggio petrarchesco tutte dedicate al marito, sia prima che dopo la morte di lui. Di questa poetessa abbiamo sia sonetti che raffinate canzoni, che raramente, dicono i critici, si elevano a vera altezza poetica, perché sono troppo ragionate.
Di lei leggiamo la seguente un’ottava:

Quando miro la terra ornata e bella
Di mille vaghi ed odorati fiori,
e che, come nel ciel luce ogni stella,
così splendono in lei vari colori,
ed ogni fiera solitaria e snella,
mossa da naturale istinto, fuori
de’ boschi uscendo e de l’antiche grotte,
va cercando il compagno e giorno e notte.

– VITTORIA COLONNA, romana (1490-1547), che fu moglie del Marchese di Pescara. Rimasta presto vedova, visse un’intensa esperienza religiosa. Fu legata da amicizia con artisti del tempo, quali Michelangiolo e il poeta Galeazzo Tarsia. Scrisse anche lei rime di gusto petrarchesco con un linguaggio elegante, ma senza un vero abbandono poetico.
Del suo Canzoniere si trascrive questo sonetto:

A quale strazio la mia vita adduce
Amor, che oscuro il chiaro sol mi rende,
e nel mio petto al suo apparire accende
maggior desio della mia vaga luce.

Tutto il bel che natura a noi produce,
che tanto aggrada a chi men vede e intende,
più di pace mi toglie e sì m’offende,
ch’a più caldi sospir mi riconduce.

Se verde prato e se fior vari miro,
priva d’ogni speranza trema l’alma:
che rinverde il pensier del suo bel frutto

che morte svelse. A lui la grave salma
tolse un dolce e brevissimo sospiro,
e a me lasciò l’amaro eterno lutto.

– FRANCESCA TURRINI BUFALINI, umbra di Città di Castello, (XVI sec.) di lei scarse sono le notizie sulla vita. Scrittrice di buona cultura, compose poesie sacre e delicate liriche petrarchesche, che rievocano i suoi affetti e la quiete di un’esistenza serena. I suoi versi vennero pubblicati a Roma nel 1595 e a Città di Castello nel 1608.
Suo è il seguente sonetto:

Cara, fida, secreta cameretta,
in cui passai dolente i miei verd’anni,
da cui la notte e ‘l dì piansi i miei danni,
mentre in te mi vedea chiusa e soletta;

quanto in ogni stagion fosti diletta,
alternando a me stessa i fregi e i panni,
ed a’ vari pensier spiegando i vanni ( i vanni: le ali)
o sonando e leggendo opera eletta!

Or con trapunti il giorno iva passando,
or con le Muse al fonte d’ Elicona,
ponendo in tutto ogn’altra cura in bando.

Ché a questo ogn’altro ben non paragona,
né dolcezza è maggiore di quella, quando
con lor dove si canta e si ragiona.


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